Nicola Napolitano: Casale - memorie del tempo che fu

  

Capivo, contadino-agricoltore, capivo la tua speranza di evadere, o, almeno, di fare evadere i figli. Ti pesava non tanto la fatica, quasi sempre mal retribuita, quanto ti pesava e ti umiliava e ti opprimeva il disprezzo delle persone che non lavoravano la terra, che non si dovevano sporcare con la terra. Dovunque andavi, comunque ti muovevi, ti sentivi addosso il disprezzo ostentato da chi non si doveva sporcare con la terra.

I più poveri le studiavano tutte e si sacrificavano, pur di fare arruolare i figli nei carabinieri, nelle guardie di finanze, nelle guardie regie, che poi furono soppresse dal fascismo.

Soffrivo molto quel disprezzo e anch'io accettai di evadere (l'iniziativa fu presa da mia madre e dalle mie sorelle). Ma dopo tanti anni consumati sui libri e sulle scartoffie, tornai alla terra, tornai alla terra come ad una madre affettuosa, la quale era rimasta ad attendermi alla curva di un approdo. Tornai ad accarezzare con una più convinta riconoscenza le tenere foglie delle viti, il verde dei prati, le bionde spighe del grano.

 

***

Avevamo Maiorisi, Solviano, Arauto, Le Bane, Madonna delle Grazie, La Pezza, La Cesa. I terreni, quasi tutti di piccola estensione, erano in parte vigneti, in parte seminativi. Avevamo anche oliveti, a La Pezza, a La Cesa, a Madonna delle Grazie; un filare di olivi, lungo la strada, stava a Maiorisi, una cicirella stava a Solviano e un'altra cicirella stava a Le Bane. Le olive di queste ultime piante, dette cicirelle perché piccole e rotonde come i ceci, erano dolci e si mettevano al forno caldo, dopo avere sfornato il pane; si mangiavano con un po' di sale e un filetto d'olio, oppure si mettevano all'acqua e si conservavano per molti mesi. All'acqua si mettevano anche gli olivastri di Maiorisi, che nostra madre coglieva a mano, ma bisognava aspettare per lo meno due mesi, prima che diventassero meno amari.

Il vino era il nostro prodotto principale. Un anno ne producemmo 450 barili: il barile locale, molto adoperato per il vino, era una misura di capacità di 44 litri, di legno, a forma di botticella allungata con piccole doghe, tenute da quattro cerchi. Oltre al vino, producevamo olio, grano, granoturco, biada, fave, lupini, fagioli, patate, frutta: pere, mele, pesche, albicocche, susine, fichi, arance, nespole, corbezzoli e tante verdure diverse.

Avevamo una capra per il latte, una pecora per la lana, un'asina come mezzo di trasporto, cinque maiali. Si compravano piccoli maialetti al mercato a Sessa o alla fiera di San Rocco il sedici agosto a Francolise e poi, già grandi, si mettevano all'ingrasso. Tre si vendevano e due si macellavano in casa. Veniva a scannarli zio Eugenio. Erano spellati con l'acqua bollente e si appendevano sotto la tettoia; zio Eugenio li spaccava, estraeva le interiora e Gaetano Corea si caricava sulla spalla una metà del suino per volta e la scaricava su un letto di fronzuti ramoscelli di lauro, appositamente preparato nella dispensa. Mia madre, intanto, aveva preparato un'abbondante colazione con patate bollite, formaggio e salsiccia. Si mangiava allegramente intorno alla tavola in cucina mentre un gran fuoco riscaldava l'ambiente. Mi rimaneva davanti agli occhi l'immagine delle due teste dei maiali, che mi facevano tanta impressione.

Il giorno dopo, zio Eugenio veniva a sfasciare. Con coltelli affilatissimi, riduceva in mille pezzi le quattro parti dei due maiali: lardo, prosciutto, pancetta, ucculari, capocolli, lonze, arrosti piccoli e grandi da distribuire ai parenti, e fegatelli, sugna, ossi da bollire nella minestra, e magri da tagliuzzare in frìgoli per la salsiccia. A sera, lo zio metteva in un'apposita madia parecchi chili di sale e vi salava lardo, prosciutti e tutto il resto che andava salato. Vi aggiungeva il peperoncino pestato e i vari pezzi venivano lasciati nella madia, sotto sale, per alcuni giorni. Poi si appendevano alle pertiche in cucina.

Da ragazzo, era mio compito guidare al pascolo i maialetti nei campi di trifoglio. Quando cadevano le prime mele, dovevo andare a raccoglierle sotto le piante per darle ai maiali già grandi. Poi era la volta dei fichi. A Maiorisi specialmente ce n'erano tanti. Chiamavamo un ragazzo o una ragazza a giornata, per coglierli. Naturalmente, insieme coglievamo anche io e una mia sorella. Avevo intessuto un grande canestro con vinchi d'olmo a misura del baroccio. Lo riempivamo di fichi, disposti a strati con le foglie, per non farli acciaccare, e a casa lo svuotavamo in un grandissimo fornigliu, largo circa un metro e mezzo, con un bordo di cinque centimetri. Lo avevo intessuto appositamente. Si facevano contemporaneamente tre scelte. I fichi più maturi e più belli si destinavano al forno, per farne fichi secchi; i fichi meno maturi e un po' duretti si conservavano per un paio di giorni, prima di darli ai maiali; gli altri si davano subito ai maiali.

A Solviano, poco lontano dal pozzo di sotto, c'erano due piante di fichi troiani. Erano le piante di fichi più alte della zona; le altre, a confronto, erano nane. Erano cresciute come se fosse stata una pianta sola, che si diramava dal suolo, un tronco inclinato a sud, l'altro a nord. Una mattina mi arrampicai su una pianta, con paniere e uncino per tirare le frasche, e cominciai a cogliere. Riempii il paniere e lo stavo spostando mentre mi accingevo a scendere. Il manico del paniere mi scivolò e il paniere si abbatté a terra con un tonfo; qualche secondo e mi trovai anch'io nel vuoto. Mentre cadevo, pensai come mi sarei schiacciato al suolo.

Mia madre stava tirando l'acqua dal pozzo. Sentì il tonfo del paniere e quello mio. Corse col cuore in gola, col timore di trovarmi quasi morto. Quando mi fu vicina, mi stavo alzando. Nessun graffio, nessuna ammaccatura, nessun dolore, soltanto un grande spavento. Guardammo il paniere: i fichi troiani maturi si erano ridotti in poltiglia, che era uscita dagli interstizi dei vinchi. Non salii mai più su quella pianta. Per quel giorno, non ebbi neppure il coraggio di salire su altre piante più basse e più comode. Quando finivano i fichi, si davano ai maiali patate bollite e schiacciate in un beverone di farina di granturco. Poi cadevano le ghiande e si alternavano ghiande, patate e granturco.

Ad Arauto, a Solviano e a Le Bane avevamo querce da frutto. Un giorno, fui spedito a Solviano a raccogliere le ghiande sotto la quercia grande che stava poco lontano dall'aia. Ne avevo raccolte appena un mezzo paniere e mi misi a giocherellare. Dopo qualche ora, arrivò sull'asina mia sorella Palma. Prima di scendere, guardò il paniere semivuoto e mi fece una ramanzina.

Ricordo che nostra madre si alzava molto presto, prima dell'alba. Accendeva il fuoco nella fornace nel cortile e metteva a cuocere una caldaia di patate. Quando erano ben cotte, le schiacciava, ancora calde, preparava il beverone, lo versava nei tre truogoli e faceva uscire i maiali dalla stalla. Essi correvano a rimpinzarsi di quel cibo, ignorandone certamente lo scopo.

Un inciso: un giorno tornavo in treno da Roma. Davanti a me, erano sedute due signore, una taciturna, un'altra parlava, parlava, sproloquiava, con un entusiasmo invidioso e acido. Era stata a comprare qualcosa in una masseria in campagna ed era rimasta sorpresa e scandalizzata da tutto il benessere di cui disponevano i contadini. Essi avevano sacchi di farina, diceva, avevano polli e cestini pieni di uova, avevano mucchi di patate, avevano grossi pezzi di lardo e prosciutti interi appesi alle pertiche nella dispensa, e vasi di salsiccia conservata nella sugna, avevano gli ziri colmi d'olio. Parlava, la signora, con una invidia mal repressa, come se tutto quel ben di Dio fosse piovuto proprio dal cielo, senza ombra di fatica. Da come sproloquiava, era evidente che ignorava completamente quanta fatica, quanti sacrifici era costata quella roba.

Io pensavo alle tante mattine in cui mia madre si era alzata di notte, col freddo, per preparare il beverone ai maiali, pensavo alle mie sorelle e alle ragazze che venivano a giornata a raccogliere le ghiande, a raccogliere le olive sul terreno quasi ghiacciato; pensavo alle nottate che avevo passate nel frantoio a macinare le olive, in quell'aria fumosa e stagnante, che metteva una sonnolenza quasi invincibile: mi davo pizzicotti sulle cosce per non cedere al sonno.

 

***

Era piacevole, la sera, specialmente nel freddo e lungo inverno, tornare a casa, dopo la giornata di lavoro in campagna, e sedersi accanto al fuoco, nella vecchia cucina affumicata. Nostra madre stendeva la tovaglia sulla tavola e scodellava nei piatti una minestra di pasta e fagioli bianchi con sugo di salsiccia e un pizzico di peperoncino; oppure cucinava fagioli e broccoletti di cavoli neri, che coltivavamo nell'orto vicino la cucina: era un piatto davvero saporito. Altre sere ci faceva trovare fagioli e rape, fagioli e zucca zuccherina, fagioli e cicoria, fagioli e borranee. Producevamo quintali di fagioli bianchi nei vigneti. Avevamo anche i borlotti, ma pochi; avevamo anche i cannellini, ma pochi.

Nostra madre diceva spesso: "Figli miei, non lamentatevi. Voi avete pane, vino, uogliu. Dovete lavorare, certamente, dovete lavorare; ma lavorate sulla terra vostra, senza dover dar conto a nessuno. È diverso lavorare alla giornata, sotto lo sguardo del padrone, il quale scruta e misura quello che fai e quanto rendi". Da giovane, prima di sposare nostro padre, nostra madre aveva lavorato per anni alla giornata, e ogni tanto ne ricordava le vicende.

Zia Fiorenza, da lungo tempo inchiodata sul sediolone appositamente costruito dal falegname masto Biasiu, domandava come andavano i lavori in campagna, se eravamo stanchi, se ci aveva sorpresi la pioggia, se c'era ancora la neve, quali operai erano venuti; domandava come stava crescendo il grano, se i grappoli nei vigneti promettevano bene. La zia aveva avuto una paralisi alle gambe e non si poteva curvare, né poteva sedere in una sedia normale. Conservava una memoria sorprendente e le faceva piacere raccontare con i minimi particolari la sua vita da giovane e poi da sposata con Antonio Feola, morto da alcuni anni. Il Signore, diceva, non le aveva concesso la gioia dei figli: se ne rattristava. Aveva uno stomaco così forte, da digerire, ferma sul suo sediolone, gli stessi piatti che mangiavamo noi, sempre in moto, in campagna e in casa. La sera, bisognava tirarla in due persone sulla scalinata, per metterla a letto.

Le camere da letto stavano sempre al primo piano; a pianterreno c'erano la cucina, la dispensa, le stalle, il cellaio, le tettoie, qualche ambiente per gli attrezzi: zappe, zappelle, pale, picconi, rastrelli, tridenti in ferro e in legno, accette, scuri, seghe, secchi, funi, funelle, martelli, tenaglie, forbici da pota, ronche, falcetti, falci. Zia Fiorenza doveva essere aiutata per svestirsi e per distendersi sul letto, una rete particolare di una piazza e mezza. La mattina, doveva essere alzata di peso, doveva essere vestita e seduta su un altro sediolone con un largo buco rotondo al centro per i suoi bisogni. Poi la si scendeva in cucina, pian piano, scalino dopo scalino, e la si aiutava a sedere sul sediolone, accanto al fuoco d'inverno. D'estate, ogni tanto, si portava il sediolone nel cortile, vicino al portone aperto, in modo che la zia potesse veder passare le persone sulla via Nazario Sauro. Alcune vicine si trattenevano a discorrere del più e del meno e le facevano compagnia.

Quando morì nostro padre, a 55 anni, la zia stava seduta sul sediolone accanto al fuoco, col capo chino, in silenzio. Notavo che in quel silenzio soffriva molto. Oltre al dispiacere di aver perduto il nipote diretto, figlio di sua sorella Rosa, forse pensava come l'avremmo trattata, una volta che il nipote non c'era più. Nostra madre, invece, ci raccomandò esplicitamente di portare il massimo rispetto alla zia, per non farle pesare l'assenza del nipote nostro padre. Molta gente, secondo l'usanza, veniva a vedere nostro padre nella bara aperta, guardava la zia ottantenne e paralitica e mormorava che era ingiusta la morte di una persona valida a 55 anni, mentre… La zia sentiva e, in silenzio, si stemperava in un dispiacere profondo.

Mi fu molto grata quando le costruii uno scannetto per poggiarci sopra i piedi: il sediolone era piuttosto alto e i piedi rimanevano penzoloni; mi fu molto grata quando, con tre pezzi di tavoloni inchiodati feci un mezzo scalino mobile, che, mentre la si tirava su per la scalinata, veniva spostato di scalino in scalino. Messi i piedi su uno scalino, poi li metteva su quel legno e di lì sullo scalino seguente: saliva così mezzo scalino per volta.

Dopo la morte di mio padre, la zia visse altri quattro anni: morì nel 1931.

La sera, dopo cena, ci trattenevamo intorno al fuoco. Nostra madre e le mie sorelle Palma, Fiorenza e Angelina filavano la stoppa, o la veria, o la lana della pecora, con rocca e fuso, alla luce di una candela a olio. Durante la quaresima, ad un cenno di nostra madre, smettevano di filare e si recitava il rosario tutti insieme. Nostra madre recitava poi alcune orazioni: ne sapeva tante. Dopo, riprendevano a filare e, spesso, ci scappava la narrazione di qualche cunto. Nostra madre ne ricordava molti, persino quello di Genoveffa e di Guerin Meschino. Ascoltavo, rapito da quella memoria straordinaria.

***

 

Venivano a lavorare Salvatore Vellucci, Paoluccio Corea, Paoluccio Casaluce, Giannino Corea, Bernardo Corea e la sorella Filomena, Ciummetiegliu Migliozzi, il fratello Salvatore e il loro padre zi' Francisco, Paolina Cerbarano, zio Davide Trabucco (aveva sposato zia Mariafelice, sorella di mia madre), zio Eugenio Ullucci (aveva sposato zia Mariuccia, sorella di mio padre), Giaco Fava, Antonio Cipro di San Marco e i figli Maria, Terigio, Giulietta.

Ogni tanto, per zappare il terreno nelle vigne, veniva il caporale don Giovanni Feola con una schiera di ragazzi. Egli non toccava mai la zappa; si metteva davanti ai ragazzi e, con una zappella con un lungo manico, li incitava a lavorare. La sera veniva a cenare a casa nostra e percepiva una giornata doppia di quanto prendevano i ragazzi. Altre volte, veniva la figlia donna Peppinella, la caporalessa, con una schiera di ragazze più piccole, che pulivano il grano dalle erbacce. Quando venivano a Maiorisi, mia madre portava un paniere di fichi secchi e a mezzogiorno la caporalessa li distribuiva alle ragazze, tutte contente di quell'offerta.

A Solviano veniva a lavorare Luigi da Nocelleto, un uomo alto, segaligno, molto buono. C'era una parte del fondo con pochi centimetri di terra su un banco di tufo rossiccio. Luigi scoperchiava con la zappa una striscia di tufo e lo rompeva col piccone; vi tirava sopra la terra con la zappa, scoperchiava una striscia successiva e rompeva il tufo col piccone. Da Nocelleto a Solviano c'erano parecchi chilometri, ma Luigi, senza quel lavoro, sarebbe rimasto disoccupato, e aveva bisogno di guadagnare la giornata.

Una sera volli provare a rompere un po' di tufo col piccone, come faceva Luigi con quei colpi cadenzati e accompagnati da un respiro affannoso. Non sollevavo all'altezza giusta il pesante piccone, perché temevo che mi cadesse sulla testa, e il piccone entrava nel tufo appena per qualche centimetro. Né riuscivo a concentrare i colpi sullo stesso punto. Testardo nel voler ottenere qualche risultato, mi sentii cadere il piccone sull'alluce. Un dolore lancinante. Zoppicando, raggiunsi un olmo, staccai con i denti la corteccia da un vinco e mi fasciai l'alluce.

Nei lavori non c'era soluzione di continuità, anzi, si accavallavano. A gennaio e febbraio c'era la potatura delle viti; ogni tre-quattro anni, si potavano anche gli olivi. Nello stesso periodo si raccoglievano le olive, poi si macinavano e si spremevano nel frantoio. Allora le olive si raccoglievano a mano, a terra, sotto le piante; era un lavoro fastidioso, perché faceva freddo, spesso la terra era ghiacciata e le mani si intorpidivano. Si accendeva un po' di fuoco per scioglierle.

Avevamo un frantoio a San Giuliano e vi si portavano le olive e si mettevano ad asciugare, sparse sul pavimento di due stanze sopra il frantoio. Bisognava salire i sacchi sopra una scala a pioli, perché mio nonno paterno Pasquale non aveva mai pensato, o aveva sempre evitato di far costruire una scalinata in muratura. Molte volte si lamentavano di questo lavoro le mie sorelle Fiorenza e Angelina. Dopo una giornata curve, con la faccia a terra a raccogliere le olive, dicevano, la sera bisognava salire i sacchi per la scala a pioli. Il quindici aprile 1927 morì mio padre, e il frantoio rimase così.

Una figura caratteristica era il vecchio muratore mastro Bernardo Mascolo. Era un tipo complesso, tra il saggio, il burlone, il faceto. Sotto la scorza di semplicione, aveva un'arguzia a volte pungente, a volte bonaria; in certe sue battute, si scorgeva una profonda pensosità e un misurato equilibrio nel distinguere il bene dal male. Forse senza accorgersene egli portava con sé quella atavica trepida attesa di un mondo più giusto, attesa sempre frustrata di generazione in generazione. Per molti anni aveva fatto il muratore, sempre povero.

Alcune volte veniva a lavorare da noi, per qualche riparazione nella vecchia casa. Se non poteva venire come manovale Diamante Casaluce, il quale era conosciuto come il migliore impastatore di calcina, mastro Bernardo si accollava anche quel lavoro pesante. Io e le mie sorelle mettevamo nel cortile la pozzolana a cerchio, al centro si mettevano due o tre caldarelle di calce spenta e vi versavamo due secchi d'acqua. Mastro Bernardo impugnava il lungo manico della zappa rotonda e diluiva prima la calce, poi vi mescolava la pozzolana. Occorreva un grande sforzo per tirare e spingere la zappa nell'impasto ancora duro. Se capitava d'estate, mastro Bernardo ansimava. Si fermava. Si alzava, prendeva il fiato, sorrideva, si tergeva il sudore con un grande fazzoletto colorato, diceva una delle sue tante battute: "Se un uomo perde la testa per una donna, non capisce più niente, non sente più niente. Quando Rosario se ne scappò con Chiarella e dopo alcuni giorni tornò a casa e bussò alla porta, la madre gli disse semplicemente: figlio mio, sta la neve 'nterra e tu puorti la femmena alla casa? Ad ogni modo, trasite".

Mastro Bernardo sospirava, forse pensava ai figli, i quali avevano sposato donne del settentrione, a lui completamente estranee per mentalità, per abitudini, per lingua. La prima volta che il primo figlio Petruccio, brigadiere dei Carabinieri, gli portò a casa dal Piemonte la fidanzata, fu un impatto spiacevole fra il dialetto casalese e quello piemontese. Mastro Bernardo ci rimase molto male: il figlio doveva fare l'interprete. Mastro Bernardo riprendeva a spingere e a tirare il lungo manico della zappa rotonda con il collo ricurvo. Quando la calcina era pronta, la guardava con soddisfazione, quasi a complimentarsi con se stesso per averla impastata bene. Si metteva al lavoro. Ogni tanto si fermava, con la cazzuola sospesa a mezz'aria, e ne diceva un'altra delle sue: "Figli miei, così è fatta la vita: c'è chi nasce per essere ricco e chi nasce per lavorare. Dicono che i poveri sono benvoluti da Dio e ci conviene crederci. D'altra parte, che ci possiamo fare? Non possiamo cambiare il mondo".

Una sera tornavamo da Solviano, io e Salvatore. Sulla salita della fontana vecchia, raggiungemmo mastro Bernardo, che tornava da San Paolo. Camminava piano, curvo in avanti. Si fermò, prese fiato, ci guardò: "Figli miei, sapete che vi dico? È meglio mangiare una gallina cotta che fare questa salita". "Buona sera, buona sera", dicemmo noi, e riprendemmo a camminare. Mastro Bernardo si fermò e disse: "Ho capito. Il vecchio sono io e devo rimanere indietro. Lo dico sempre: una bevuta d'acqua quando uno ha sete, è meglio di una botta in fronte. Non correte, ci arriverete anche voi a camminare piano, come me. Non correte: sempre prima di cena arriverete".

La potatura era un lavoro lungo e complesso. Prima si tagliavano le tese, cioè i tralci di due anni che avevano portato i grappoli, poi si lasciavano due o tre tralci giovani, i migliori, secondo la forza della vite, e si tagliavano gli altri giovani tralci. Intanto, dai tralci prescelti si tagliavano tutti i cirri. Dopo alcuni giorni, finiti i tagli, si procedeva alla sostituzione dei pali marciti o spezzati con pali nuovi di castagno o di olivo. I tralci che dovevano portare i grappoli nella prossima stagione, venivano legati ai pali con vinchi di olmo, o con vinchi di ceppai di castagni, o di salici. In ultimo si procedeva ad attesare, cioè a legare i tralci gli uni con gli altri, in modo che tutta la vigna diventava un pergolato.

C'erano alcuni operai notoriamente esperti della potatura delle viti; c'erano parecchi operai che non ne capivano, non si impegnavano ad imparare, e vi rinunciavano. Preferivano la zappa, era più semplice. Bravi a trattare le viti erano Salvatore Vellucci, zi' Francisco Migliozzi, Paoluccio Corea, Paoluccio Casaluce, Giaco Fava, Paolina Cerbarano.

Prima che terminasse la potatura si cominciava a zappare il terreno nei vigneti, dopo averlo sgombrato di sarmenti, frasche secche, pali vecchi e forcine. Si zappava specialmente il terreno in cui si dovevano piantare le patate. Si vuo' fa' la patana iusta, piantala te iennaru, e scavala t'austu, recitava un proverbio. Si diceva che il terreno zappato e concimato con il letame, per piantarvi le patate, si doveva riposare per qualche tempo dopo la zappatura, così il letame si amalgamava con la terra e la rendeva più soffice, più sciolta.

Nei primi giorni di marzo, un anno, vennero a zappare a Le Bane Teresina, Carminella, Santella e Melinda. Sopra il pascone di lupini, fave e rape, c'erano una decina di centimetri di neve. Al paese ne era caduta di meno, perciò erano venute a lavorare. Era fastidioso tirare nella taglia pascone e neve e il lavoro procedeva con evidente lentezza. Teresina propose di smettere e di tornarsene a casa. Mia madre, decisa, disse di continuare, per non perdere la giornata. Continuarono fino a sera. Quel maggese fu più fertile degli altri. Si pensò che la neve avesse contribuito a far marcire meglio il pascone.

Una mattina sentimmo bussare al portone. Mia madre andò ad aprire, erano quattro vangatori, smagriti. Le barbe brizzolate, le vanghe legate a tracolla con pezzi di spago: "Fateci lavorare" dissero. "Veniamo da Marcianise, abbiamo camminato di notte. Fateci lavorare ". Mia madre non seppe dire di no. Era commossa. Per mezzogiorno preparò una pentola di pasta e fagioli col sugo di salsiccia e la portò ad Arauto con piatti e cucchiai e un fiasco di vino. I quattro braccianti avevano lavorato alla svelta e non si aspettavano un piatto caldo di pasta e fagioli e il nostro buon pane con la salsiccia e il vino. Mangiarono con avidità contenuta in silenzio.

Ripresero a vangare, arrivarono al confine, avevano finito e il sole era ancora alto sul Massico. Quando mia madre volle pagarli per una intera giornata, si schermirono, non volevano. Mia madre insisteva nel dire che avevano fatto un buon lavoro e mise in mano al più anziano una carta da dieci lire e tre da due lire. La giornata, allora, era di quattro lire. I vangatori erano confusi, ringraziarono. "Dio vi benedica e vi faccia trovare altro lavoro", aggiunse mia madre.

A marzo si innestavano tutte le piante selvatiche che dovevano essere innestate. Parenti e amici fornivano le marze delle migliori specie di frutta. Zio Eugenio era un provetto innestatore e veniva ad innestare, specialmente la domenica, per non perdere la giornata di lavoro. Gli innesti si legavano con cortecce di olmo. Lo zio faceva un giro lungo il rivo, tagliava con la ronca i giovani rami dagli olmi più lisci e li scortecciava, poi raccoglieva un paniere di muschio, per fasciare gli innesti e tenerli freschi. Quasi tutti, o tutti, attecchivano. Guardando zio Eugenio nelle varie operazioni, cominciai a provare i primi innesti.

Si piantavano fagioli, ceci, il primo granturco. Si potevano preferire le porche, più faticose, da alzare con la zappa, oppure si potevano preferire semplici piccoli solchi superficiali, appena un segno nel maggese, dentro cui si mettevano i semi col cavicchio, detto ru pezzùco. A Maiorisi, metà del seminativo si seminava a grano, nell'altra metà si era già seminato il trifoglio: tra la fine di marzo e i primi di aprile, i buoi ne facevano il sovescio col prussiano di ferro, e vi si piantava il granturco. Il trifoglio tenero marciva ed era un ottimo concime.

Durante l'aratura, si chiamava una donna a giornata, per scegliere la gramigna, nella terra smossa dal vomere. Ne usciva tanta, a Maiorisi. La donna addetta ne faceva piccoli mucchi; poi si raccoglievano e si bruciavano. La gramigna migliore si scuoteva col tridente, per far cadere la terra, e si conservava per l'asina, che la mangiava. Spesso passava sulla strada per Teano un carretto e l'uomo che lo guidava fermava e chiedeva per favore di raccogliere la gramigna. Qualche volta comprava quella già raccolta. Si diceva che la gramigna, ben lavata e asciugata, veniva triturata e mescolata con la crusca. L'insieme si dava per governare i cavalli.

***

Ad aprile si raccoglievano nei vigneti i sarmenti rimasti e si legavano in fascine, che poi venivano portate a casa e sistemate in cataste sotto le tettoie. Durante tutto l'anno servivano per il fuoco giornaliero insieme alla legna, ma servivano specialmente, ogni dieci-dodici giorni, per il forno del pane. Si raccoglievano anche nei vigneti le forcine rimaste, con cui erano state puntellate le tese, appesantite dai grappoli prima della vendemmia, e si mettevano all'impiedi appoggiate intorno a qualche castagno. Per sicurezza, vi legavo intorno un cordone di vitalba. Sarebbero servite per l'anno seguente, sia per le tese, sia per puntellare i rami di altre piante, che rischiavano di spezzarsi sotto il peso dei frutti: meli, peri, fichi, pèschi, albicocchi, susini.

Seminavamo anche la canapa nell'orto dietro casa. La canapa, per crescere bene, aveva bisogno di un terreno fertile, ben concimato e molto sciolto, altrimenti le pianticelle crescevano basse e sottili, e davano poche fibre. Dagli stessi semi nascevano moltissime piante maschili, più sottili, e poche piante femminili, più robuste, più alte, più verdi, che in cima portavano i semi. Quando la canapa seccava, veniva scavata e stesa al sole sullo stesso terreno. Dopo alcuni giorni, bisognava scuoterla vigorosamente, a piccoli mannelli, per far cadere tutte le foglie. Gli steli venivano legati in fasci, vi si tagliavano le radici e i fasci si mettevano nell'acqua in apposite vasche. Vi si mettevano sopra grosse pietre pesanti, per non farli galleggiare.

Dopo una settimana o più, i fasci si tiravano dall'acqua e si mettevano all'impiedi al sole ad asciugare, aperti nel basso a cerchio, per farli reggere. Poi venivano maciullati sull'apposita maciulla (la gramola), uno strano attrezzo rudimentale, fatto di un grosso tronco di legno su quattro piedi. Aveva uno scavo longitudinale da cui emergeva una specie di dorso a triangolo, su cui si abbatteva un altro legno mobile, con uno scavo corrispondente. L'operaio addetto, con la destra alzava il legno superiore, con la sinistra appoggiava sul legno inferiore un mannello di steli di canapa, e abbassava e alzava e abbassava e alzava tre-quattro volte il legno superiore, tirando piano piano il mannello. Venivano così spaccati e triturati in piccole parti gli steli e nella mano dell'operaio rimanevano le fibre, lunghe e resistenti, che, pulite ancora del canapule, detto ri cannaucci, e passate al pettine apposito, diventavano la stoppa e la veria.

Stoppa e veria, fibra più sottile e più morbida, venivano filate, con rocca e fuso, per tele da sacchi e lenzuola da campagna e lenzuola da letto, tovaglie, asciugamani, tovaglioli, camicie. Dal fuso, il filo veniva passato sul naspaturo, e si formavano le matasse. Queste venivano impiastricciate con la cenere della liscivia e, disposte in tegami di terracotta, erano messe nel forno, così il filo diventava bianco. Le matasse venivano lavate abbondantemente, asciugate e, messe sull'arcolaio, venivano trasformate in grossi gomitoli, pronti per passare al telaio.

Poco lontano dalla nostra casa, abitava la vecchia zi' Carminella De Cristofaro, una tessitrice molto conosciuta nel paese, la quale aveva un grande telaio e si faceva aiutare nel lavoro dalle figlie Colomba e Antonietta. Ogni tanto, tesseva anche per la nostra famiglia. Ricordo ancora quando sedeva nel vicolo o sotto il portico e preparava i gomitoletti per l'ordito. Spesso sentivo il tipico scricchiolìo del telaio quando tesseva, tutta contenta veniva a consegnare il rotolo di tela a mia madre, la quale subito la pagava.

 

***

A maggio, bisognava pulire il grano dalle erbacce con la zappella, e così pure le fave, i lupini, la biada, l'orzo. Intanto cominciava la pompatura. Il primo vigneto che ne aveva bisogno era Solviano. Alcuni anni, si iniziava il primo giro a San Michele, il nove maggio; poi si andava a Maiorisi, seguiva Le Bane, in ultimo Arauto, dove il terreno era più freddo e le viti sbocciavano una quindicina di giorni più tardi. Il lavoro della pompatura dei vigneti si interrompeva soltanto per qualche giorno, perché, appena si terminava il primo giro ad Arauto, si doveva correre a Solviano per il secondo giro. E così si andava avanti fin verso la metà di luglio, e anche oltre, se la stagione era umida e la peronospera si sviluppava di più.

Era un lavoro complesso. Andavo a comprare il verderame alla bottega di Alberto Aurilio, di fronte alla chiesa. Portatolo a casa, bisognava pestarlo sul pavimento e ridurlo quasi in polvere per renderlo solubile nell'acqua. Caricavamo sulla sporta sull'asina i sacchetti pesati del verderame (avevamo un'apposita bilancina), la carrucola, il secchio e la fune per attingere l'acqua dal pozzo, un secchio pieno di calce spenta, le brocche per trasportare la dose ai pompatori, le bottiglie di vino, una brocca con l'acqua per bere, l'involto per mangiare. Quando si andava a Maiorisi, si caricava tutto sulla carretta, compresi gli operai e le pompe, io e una mia sorella, Fiorenza o Angelina, o entrambe, se si dovevastannare. Su ogni terreno c'era un pozzo e, accanto, la vasca in muratura, misurata con bulloni da un lato, per preparare la dose.

Si attaccava la carrucola alla punta del palo piantato obliquo accanto al muretto del pozzo, si infilava la fune, si legava il secchio ad una estremità. La carrucola non si poteva lasciarla attaccata al palo, perché la rubavano. Si tirava l'acqua, vi si metteva a sciogliere il verderame di un sacchetto; quando era tutto sciolto, una persona girava l'acqua con una forcina, un'altra persona vi lasciava cadere dentro, piano piano, il latte di calce, precedentemente preparato in un secchio. L'acqua acquistava lentamente un colore azzurro intenso. Gli operai si aggiustavano la pompa sulle spalle e Filomena vi versava una brocca della dose. Riempiva subito la brocca, se l'appoggiava su un fianco e si portava dove gli operai avevano terminato la brocca precedente. Per tutta la giornata faceva avanti e indietro fra la vigna e il pozzo, con quella grande brocca che, piena, pesava una dozzina di chili.

La dose era corrosiva e gli operai, spesso Paoluccio Corea e Salvatore Vellucci, cercavano di proteggersi il viso con una sciarpa; ma se c'era un leggero alito di vento, era impossibile ripararsi da quella nuvoletta che usciva sibilando dal rubinetto e spruzzava le foglie delle viti, per fermare la peronospera. Alcune volte, mentre stannavo, sentivo Paoluccio o Salvatore che si lamentavano perché Filomena appoggiava la brocca piena sulla pompa. Se c'erano due pompatori, doveva portare la dose, insieme a Filomena, anche mia sorella Fiorenza, o Angelina.

 

***

A Maiorisi, mio padre aveva fatto scavare un pozzo da Rosario D'Angelo. Arrivati ad una certa profondità, senza trovare l'acqua, mio padre aveva proposto di smettere; Rosario aveva voluto continuare. Dopo altri tre giorni di lavoro, mio padre aveva insistito per smettere; Rosario aveva insistito a continuare. Il pozzo era diventato profondissimo. Improvvisamente, nella roccia, si trovò come un tubo, con una forte corrente d'acqua. Rosario si fece calare con la fune una vecchia giacca di velluto, otturò alla meglio quella specie di tubo e riuscì a scavare un fossetto di una trentina di centimetri, da potervi attingere l'acqua col secchio. Tirò la giacca, l'acqua riprese a correre ed egli salì dal pozzo, felicissimo del suo lavoro.

Passarono alcuni anni. Tutte le persone che vedevano quel pozzo ne ammiravano la profondità e la perfetta circonferenza; sembrava fatto col compasso e col filo a piombo. L'acqua era buona, ma per tirarne la quantità occorrente per la pompatura della vigna occorreva grande fatica, data la profondità del pozzo. D'estate, gli operai vi calavano le bottiglie del vino in un secchio legato alla fune. Quando mangiavano a mezzogiorno, tiravano su le bottiglie diventate fredde e ne bevevano il vino con piacere.

Una mattina, andammo a Maiorisi con la carretta. In vista del terreno, notammo che dal pozzo usciva una colonna di fumo. Non era fumo: era vapore che si dissolveva nell'aria. L'acqua, nel pozzo, non c'era più. Dopo due giorni, il vapore scomparve: il pozzo rimase asciutto.

L'acqua era indispensabile per irrorare la vigna. Zio Antonio di San Donato, un provetto muratore, ebbe un'idea. Ad una certa profondità, scavò due grotticelle ai lati del pozzo, una di fronte all'altra; sul vuoto del pozzo costruì una resistente volta con pietre sagomate di un tufo durissimo e cemento, intonacò accuratamente e formò una cisterna.

Mio padre aveva fatto innalzare, fra la vigna e il seminativo, una grande pagliara di gambi di granoturco, quadrata, coperta con una tettoia di coppi, aperta da un lato, per potervi riparare la carretta e l'asina. Zio Antonio scavò un canaletto dove sgocciolavano i coppi, quando pioveva, e lo indirizzò in una fossa che fece riempire di sabbia di rivo, da servire da filtro all'acqua piovana. Dal fosso, con un canaletto pieno di sabbia e interrato, l'acqua scendeva limpida nella cisterna.

Non si smetteva di pompare e bisognava iniziare a girare per i vigneti, tesa per tesa, con lo zolfo, perché i grappoli avevano già gli acini abbastanza sviluppati e perciò facili ad essere attaccati dall'oidio. A Maiorisi veniva a dare lo zolfo zi' Michele, soprannominato ru leudiano. Abitava accanto alla casa di zia Mariafelice. Io scendevo con la carretta ed egli stava aspettando. Prima di dirmi buongiorno, domandava se avevo portato l'acqua, se avevo portato la ronca. Capivo a mezzogiorno il perché. Cacciava da un tovagliolo un canto di pane durissimo, lo appoggiava su un palo e a colpi di ronca lo riduceva in piccoli pezzi; li raccoglieva, li bagnava ed aspettava che si intenerissero. Era vecchio e non aveva più i denti. Da tempo era rimasto vedovo e viveva solo, bisognoso.

Tra giugno e luglio, si doveva procedere alla cosiddetta potatura estiva, che consisteva nello sfoltire le viti dei molti e inutili giovani tralci, che sbocciavano a profusione. Per ogni vite, si lasciavano i tre o quattro tralci migliori e nelle migliori posizioni per la prossima potatura invernale. Nel nostro dialetto, si diceva che si doveva sperucciare le viti, togliere cioè i pidocchi, tali erano considerati i giovani polloni inutili, che si affollavano prima dell'attaccatura delle tese.

Le tese che portavano i grappoli, dopo il secondo o terzo giro della pompatura, dovevano essere stannate, cioè bisognava spezzare tutti i giovani tralci, un internodo o due dopo i grappoli. Era un lavoro indispensabile, sia per fare arrivare direttamente sui grappoli gli spruzzi della dose di verderame e latte di calce che usciva dal rubinetto della pompa, sia perché, senza spezzarle, le cime dei tralci avrebbero toccato il terreno e sarebbe stato impossibile agli operai muoversi nei filari, sotto le tese a pergolato, con il peso della pompa sulle spalle: piena, dodici-tredici chili. D'altronde, tutti quei tralci avrebbero sottratto sostanza ai grappoli dell'uva.

 

***

Era già cominciata la sarchiatura delle patate, dei fagioli, dei ceci, del granturco. A Maiorisi, la strada non era asfaltata, c'era la breccia bianca. Si lavorava nella vigna e ogni macchina che passava, poche allora, sollevava una grande nuvola di polvere, che investiva tutto il terreno e per alcuni momenti toglieva il respiro. Sarchiando il granturco nel seminativo, si impastavano polvere e sudore.

Venivano a lavorare Italia Iannotta, le sorelle Rosinella e Fiorina Taffuri, Carminella Pecorone, Melinda Iannotta. Un giorno, nelle ore meridiane faceva molto caldo e si sudava, anche con panni leggeri. Eravamo a pochi passi dalla strada per Teano. Sulla strada avevano messo rappezzi di breccia, piuttosto grossa. Passò un calesse tirato da un asinello smagrito. Il calesse aveva le ruote storte e pendeva fortemente, con moto alterno, da un lato e dall'altro; quando passava sui rappezzi di breccia, sembrava stesse lì lì per capovolgersi. Sul calesse c'era un giovane che teneva le redini e a fianco c'era un uomo anziano, con un grosso cappotto con il bavero alzato, come se sentisse freddo.

Rosinella e Fiorina prendevano in giro quel poveruomo e ridevano, ridevano con battute ironiche e offensive: "Sentite che freddo che fa? Mettetevi il cappotto, sentite che freddo che fa?" Italia, seria e dispiaciuta, guardava e rimaneva in silenzio; poi disse: "Che ne sapete, se il giovane non porta il padre ammalato, con la febbre alta, all'ospedale di Teano? Che ne sapete se non avevano altro mezzo di trasporto, oltre a quel calesse sgangherato?" Non dissi parola, ma in me stesso notai la superficialità e l'indifferenza di Rosinella e Fiorina, e l'umana sensibilità di Italia.

A metà giugno, bisognava mettere mano alla mietitura del grano. Allora si coltivava molto grano, nella zona. Ne avevamo a Maiorisi, a Solviano, a Le Bane. Era un lavoro impegnativo e urgente, quando le spighe, ben granite, si curvavano verso terra e nelle calde ore meridiane cominciavano a lasciar cadere qualche chicco. Non si poteva aspettare. I mietitori avevano ognuno il proprio falcetto bene affilato sulla sottile dentatura e tagliavano gli steli del grano ad un'altezza di trenta centimetri. Non riuscivo a capire come facessero le case, cioè due piccoli mannelli di steli di grano tagliati raso terra e intrecciati dalla parte delle spighe. Servivano per legare il grano in covoni, che poi si raccoglievano in lunghe biche.

Dopo un certo tempo, i covoni venivano portati sull'aia; il grano si spandeva a fettucce progressive per far risaltare le spighe tutte dalla parte di sopra. Dopo circa mezz'ora, si battevano con i correggiati. È difficile, oggi, immaginare com'era fatto un correggiato che, allora, nella zona, si chiamava vevigliu. Era formato di due bastoni, collegati con una correggia di cuoio morbido, l'uno dei quali, più lungo, si impugnava facendo ruotare in aria l'altro bastone, più massiccio, e facendolo battere sulle spighe con uno scatto delle mani verso il basso. Chi lo adoperava le prime volte, doveva prestare la massima attenzione, per evitare che il secondo bastone gli battesse sulla testa o sui piedi. Gli operai si disponevano in due file, di fronte; ognuno aveva un altro avanti a sé e le file battevano con ritmo alternato: mentre i bastoni di una fila giravano in alto, quelli della fila di fronte battevano sulle spighe.

La sera, si aspettava che spirasse il ponentino e, con una pala di legno, l'operaio più qualificato, dal mucchio di chicchi e pula, gettava in aria, con uno scatto vigoroso, una palata colma. Il vento allontanava la pula, mentre i chicchi di grano cadevano belli puliti verticalmente. Bravo, in questa operazione, era zio Eugenio, il quale imprimeva un movimento alla pala, in modo che si formava un mucchio stretto e lungo, e non quello conico. Non mi fu difficile imparare a iauriare a palummella come faceva lo zio.

Il grano veniva messo negli sportoni nella casetta. Gli sportoni erano grandi recipienti rotondi di strisce di stramma (il saracco), di varia larghezza e di varia altezza, secondo l'uso. Avevamo sportoni per il grano, per i fagioli, per la biada, per le fave, per i lupini, per il granturco. Si aspettava una ventina di giorni, nel grano si sviluppava una miriade di farfalline. Allora si spandeva il grano sull'aia e si faceva soleggiare, smuovendolo ogni tanto con la pala di legno, e più spesso con i piedi scalzi. Mi divertivo, da ragazzo, a tracciare le porchetelle nei chicchi, per esporli meglio al sole. Al tramonto, si raccoglieva il grano nei sacchi, si portavano a casa sull'asina e si riempiva la tina che avevamo in cucina.

A Maiorisi si seminava molto grano. Dopo la mietitura, veniva il carrettiere Luigi Fiorillo con il suo grande carretto a tre cavalli, uno tra le stanghe e due a velanzino, cioè attaccati ai lati con un aggeggio di pettorale di cuoio, due corde, un massiccio bastone con un gancio che si infilava in un anello fisso al carretto sulla selletta anteriore. Luiggiegliu, lo chiamavamo così, caricava i covoni, facendoli sporgere molto ai quattro lati e legandoli poi con le funi. Li trasportava per la battitura a Solviano, dove c'era una grande aia. Poiché il carretto non poteva accedere al terreno, perché dalla strada c'erano circa duecento metri di via vecchia stretta, si scaricavano i covoni su un lenzuolo sulla strada, e bisognava trasportarli a mano sull'aia. Poi si pensò di portare i covoni sull'aia di Arauto, ma nemmeno lì il carretto poteva entrare sul terreno e bisognava scaricarli su un lenzuolo sulla strada Casale-Cappelle e trasportarli a mano sull'aia.

Il trasferimento dei covoni da Maiorisi al paese si faceva anche per avere a disposizione la paglia. Se ne consumava tanta durante l'anno, per la lettiera alle stalle dei maiali, dell'asina, della capra, del pollaio, e ogni mattina, con la paglia si accendeva il fuoco.

Durante la battitura del grano, con la paglia si formavano i cosiddetti metali, i grandi pagliai all'aperto a forma conica. Un operaio più esperto disponeva la paglia in cerchio, con un tridente di legno, facendo la massima attenzione a non sporgersi con i piedi verso l'esterno, specialmente quando il pagliaio era cresciuto più di un metro, perché la paglia scivolava ed egli ruzzolava a terra. Soltanto qualcuno degli operai sapeva destreggiarsi al centro del pagliaio, via via che questo saliva, restringendosi, fino a chiudersi intorno al palo, il cosiddetto strépete. Quando il pagliaio diventava alto, da non poterci alzare più la paglia col tridente, vi si appoggiava una scala a pioli e una donna saliva la paglia in un lenzuolo. In ultimo, veniva messo intorno al palo un cesto di terra, che faceva da cappello al pagliaio.

La paglia, così, si conservava asciutta, anche quando pioveva a lungo. Con un uncino di ferro con un manico di legno, ru cruoccu, si tirava la paglia dal basso, si legava in fasci e si portava a casa. Presto dovetti imparare a fare i pagliai. Quando arrivavo in cima, in alto, mia madre guardava timorosa dal basso e mi raccomandava di tenermi sempre afferrato al palo.

***

 

Luglio. Stavamo a Maiorisi a sarchiare il granturco. A mezzogiorno, ci mettemmo a mangiare all'ombra del grande fico davanti alla pagliara. Filomena sciolse l'involto e trovò il pane pieno di formiche. Aveva lasciato l'involto su una vite e le formiche lo avevano invaso. Si arrabbiò e sbatté il pane per terra, sia per sfogare la rabbia, sia per fare uscire le formiche. Le formiche uscivano, ma non finivano mai di uscire: sembrava che si fosse formata una specie di fabbrica che le sfornava all'infinito. Carmenella offerse metà del suo pane a Filomena, Filomena non lo volle.

"Mettilo in un secchio d'acqua" consigliò Italia. Filomena tirò un secchio d'acqua dalla cisterna e vi mise il pane. Le formiche continuavano ad uscire e galleggiavano sull'acqua, agitando le zampette. Filomena afferrò il pane e cominciò a mangiare, masticando pane e formiche e borbottando: "Peggio pe' esse!" Poi, guardò le compagne e domandò: "Ma sapete perché sono state inventate le formiche, e i pidocchi e le pulci e le zecche e le piattole?" Rispose, calma, Italia: "Per esercitare la pazienza delle persone". Filomena gettò il pezzo di pane che aveva in mano: le formiche continuavano ad uscire.

Ad agosto e a settembre, nostra madre ripeteva spesso il proverbio: t'estate secca vietti, ca te viernu su' cunfietti. Bisognava raccogliere e conservare anche le cose più insignificanti, come le cascavelle, una specie di susine piccole come una ciliegia, perché durante l'inverno, che era lungo e freddo, sarebbero state utili e saporite. Si spaccavano le pèsche e si seccavano al sole e al forno, si spaccavano e si seccavano i pomodori, le prime mele; si sceglievano i fichi migliori, si spandevano nei furnigli (cestini piatti e rotondi di vinchi di ligustri, di olmo, di olivo, di salice, di castagno, larghi una quarantina di centimetri e con il bordo di quattro-cinque centimetri; li tessevo io stesso) e in un paio di infornate diventavano fichi secchi. Si bollivano le pere e si seccavano, si cuocevano al forno le castagne e si conservavano, si conservavano le susine secche, l'uva passita, le purciacche, le sorbe. Alcune famiglie seccavano le bucce dei meloni e le bucce di fichidindia.

Nostra madre aveva nei fienili una serie di pentoloni di creta smaltati, li riempiva di tutta quella roba da conservare, li copriva con coperchi pesanti per evitare che vi entrassero i topi, e durante tutto l'inverno, alternando una cosa all'altra, preparava il companatico da portare in campagna per il giorno, oppure preparava la cena.

Squisite erano le pèsche secche spaccate, fritte incollate con la farina, squisiti erano i pomodori secchi spaccati, fritti come le pèsche. La sera precedente, quando si spegneva il fuoco, pèsche o pomodori, o purciacche, si mettevano nell'acqua calda in una pentola e la pentola si metteva sul focolare, sulla cenere calda. La mattina seguente si friggeva. Le castagne al forno, quando si raffreddavano, diventavano dure come le pietre, ma nella cenere calda accanto al fuoco ritornavano tenere. Erano buone anche bollite.

L'aurora ci portava nei campi, e mettevamo sempre in tasca qualcosa: fichi secchi, pere secche, susine secche, sorbe secche. D'inverno, al mattino, spesso si faceva la polenta. Nostra madre metteva sul fuoco un paiolo di rame stagnato e, quando l'acqua bolliva, con una mano lasciava cadere nel paiolo, lentamente, un filo di farina di granturco, con l'altra mano girava l'acqua con un mattarello. La polenta veniva messa in parte nei piatti, ove si rapprendeva e si poteva poi scaldare sulla graticola sulla brace, in parte si mangiava ancora calda nel paiolo.

Le stagioni si avvicendavano, come si erano perennemente avvicendate sulla corsa degli uomini al da fare, e non si pensava, allora, all'osservazione che ogni tanto faceva nostra madre: "Facciamo tante corse per sbrigare i lavori che si accavallano di qua e di là, poi ti viene una febbre, ti metti a letto, e non hai più niente da fare". Intanto si correva, si lavorava, e i mesi passavano in fretta, e dalla polenta, che era sinonimo di freddo, si passava al caldo del mese di agosto, quando bisognava scavare i lupini.

I semi dei lupini servivano per concime alle viti e al grano, oltre che per seminare il pascone nei vigneti. Bisognava scavare i lupini di notte, per non fare aprire i baccelli e disperdere i semi sul terreno, ed anche per profittare di quel poco di umidore notturno che rendeva i gambi meno aspri. Bisognava batterli nelle ore più calde del meriggio, perché soltanto col caldo i baccelli si aprivano tutti. Venivano battuti con le lope, grossi e lunghi bidenti di legno, piuttosto pesanti. Poi bisognava passare i semi, con grande pazienza, nell'apposito vaglio. In ultimo, bisognava legare in fascine ri sarracuni, cioè i gambi dei lupini, che servivano per il fuoco in cucina e per il forno.

Cominciavano a cadere le mele, non ancora mature, ma già buone per i maiali, prima che maturassero i fichi. Era mio compito andare con l'asina ad Arauto, a Le Bane o a Solviano, a raccogliere le mele che cadevano sotto le piante. Le raccoglievo col paniere e riempivo due grandi cesti (ri cestriegli di mezzo tomolo), messi ognuno in un angolo della sporta, sistemata sul basto dell'asina. Le mele più belle, e meno acerbe, venivano spaccate, pulite dei semi al centro e messe al forno. Altro compito mio era quello di andare a cogliere i fiori di cacio sui grandi cardi, maledettamente pungenti, comunque li avvicinavi. Servivano per fare il formaggio dal latte della capra e della pecora.

Si falciava il trifoglio per il fieno. Falciatori bravi erano Antonio Zano e Giaco Fava. Il trifoglio si spandeva al sole per farlo seccare; dopo due o tre giorni bisognava girarlo. Ben secco, si raccoglieva in mucchi, e la sera tardi o la mattina presto si facevano i mazzi (ri truocci), facili ad essere caricati sull'asina per essere portati a casa. Poi si tiravano con fune e carrucola sui fienili e venivano sistemati in modo che non toccassero i coppi, per paura di autocombustione.

Si falciava anche il trifoglio già secco, per fare la semenza; occorreva falciarlo la mattina molto presto, perché, appena il sole si alzava, le spighette si disfacevano al colpo della falce e la semenza si disperdeva sul terreno. Si facevano dei mucchietti e dopo alcuni giorni, preferibilmente nelle ore calde, si prendevano pian piano col tridente e si battevano su un lenzuolo, o sull'aia. Si usava tenere la semenza all'aperto, in caratteristici mucchi oblunghi. Qualche volta, di notte, un ladro la rubava. La semenza di trifoglio si vendeva a caro prezzo.

Falciato il trifoglio nella vigna, rimaneva ru pratale, che spesso veniva subito zappato e sul maggese si piantavano i fagiolini gentili, oppure il granturco. Se pioveva, si raccoglieva qualcosa. Un giorno stavamo zappando un pratale io e Salvatore nella vigna a Solviano. Zio Angelo di Sessa venne a trovarci a casa e, non trovandoci, passò per Solviano. Ebbi bisogno di allontanarmi e scesi giù alla soccia. Quando tornai, e dopo un po' zio Angelo andò via, Salvatore mi riferì che, in mia assenza, lo zio aveva esclamato che con la zappa in mano non ci stavo proprio bene.

 

***

A settembre bisognava girare spesso per i vigneti, per puntellare con le apposite forcine le tese, già appesantite dai grappoli prossimi alla maturazione. Senza le forcine, le lunghe tese si spezzavano e i grappoli sbattevano a terra e si schiacciavano. Intanto, si dovevano pulire i terreni da tutte le erbacce, cresciute liberamente durante l'estate, e dai cardi dei castagni. Si facevano grossi mucchi e si bruciavano; in molte campagne si notavano le alte colonne di fumo, che duravano tutta la giornata.

Caratteristica, a settembre, era la spregliatura delle pannocchie di granturco: si cantava, si raccontava, si scherzava, si rideva, qualcuno tirava di nascosto una pannocchia sulle spalle di un'altra persona. Le donne del vicinato venivano ad aiutare. Si compiaceva chi trovava due pannocchie più grandi e più belle, vi lasciava due cartocci, li arrotolava, legava quelli di una pannocchia con quelli dell'altra pannocchia e mostrava r'appiennulo. I cartocci più bianchi, le spreglie, si conservavano per riempire i sacconi per i letti, al posto dei materassi.

Era già tempo di preparare il terreno per la semina del trifoglio, per farlo nascere alle prime piogge. Ne avevamo diverse specie, dal maggenco al verdosco, che era l'ultimo a fiorire e si prestava utile per il pascolo dei maialetti. Capitava qualche volta che, mentre i maialetti pascolavano e sembravano tranquilli, mi mettevo a giocherellare con qualche sorgentella d'acqua. Con mio grande disappunto, alzandomi, notavo che i maialetti erano spariti. Correvano nei terreni confinanti a mangiare le patate piantate o i cavoli neri. Naturalmente rovinavano tutto e, il giorno dopo, i proprietari reclamavano con mia madre per il danno subito. Con pazienza, dovevo sentirmene le giuste rampogne.

Il trifoglio maggenco, precoce, era più utile per la fienagione. Producevamo una grande quantità di fieno, che serviva per l'asina nostra, per gli asini che gli operai portavano con sé durante la vendemmia, e soprattutto per i buoi quando venivano a lavorare il seminativo. Nelle giornate di forte pioggia o di neve (allora pioveva molto e d'inverno faceva molto freddo), il fieno si dava anche alla capra e alla pecora: invece di portarle al pascolo, si tenevano nella stalla o sotto la tettoia. Altra risorsa, per le governate alle bestie nelle brutte giornate, erano i baccelli secchi dei fagioli (ri ùnguli), che venivano accuratamente conservati.

Un giorno, zio Angelo di San Giuliano si mise a lavorare il terreno a Solviano, poco lontano dall'aia, con l'aratro di legno. C'era da preparare il terreno per seminare il trifoglio. Lavorava tranquillo e ogni tanto dava la voce ai buoi. Passeri, fringuelli, cinciallegre e pettirossi saltellavano sulla terra smossa, in cerca di cibo. Stavo davanti alla masseriella per prendere una zappa e mi sentii chiamare con voce concitata: "Corri! Corri!" Vidi mio zio che si premeva con una mano il cappello sulla testa e con l'altra teneva fortemente le funi dei buoi, che scalciavano e si agitavano.

Lo raggiunsi di corsa, senza capire che cosa fosse successo. "Sfila il chiovolo!" gridò mio zio, "e attento alle funi!" Appena il giogo si sganciò dalla bure, mio zio lasciò la fune e i buoi si misero a correre. Il vomere aveva spaccato un nido di vespe terragnole,e d esse si erano avventate sotto la pancia dei buoi e sulla testa di mio zio. Egli si era sollevato il cappello per scacciarle, ed esse gli stavano punzecchiando rabbiosamente la testa semicalva.

Corse mia madre, spaventata. Lo zio era tutto rosso in viso e stringeva i denti per il dolore. Mia madre prese alcune patate nella masseriella, le affettò e le strofinò sulla testa dello zio, testa che si andava gonfiando come un pane messo a lievitare. Lo zio andò a prendere i buoi, che si erano fermati presso il rivo e cercavano di scuotersi le ultime vespe. Lo zio li accarezzava e li chiamava per nome: Fiorillo e Cardillo.

Settembre e ottobre ci impegnavano nella semina del pascone, un insieme di lupini, fave, rape, biada. Serviva come concime per il sovescio alla zappatura. Le tenere piante di lupini e fave servivano anche per concime alle viti. Ogni anno, nei mesi di marzo e aprile, si scavava con la zappa una fossetta circolare intorno al gruppo di viti (tre o quattro), si riempiva di fave e lupini e si copriva con la stessa terra che si era scavata. Fave e lupini marcivano ed erano un ottimo concime naturale. Le rape, prima della zappatura, davano buoni broccoletti; la biada la mangiavano la capra e l'asina.

A fine settembre, bisognava prepararsi per la vendemmia. Gran parte della zona di Casale era tenuta a vigneti, specialmente a sud, verso Croce di Casale, L'Ariavecchia, La Starza, Rampaniuci, Le Forme, La Cometa, e a ovest tutta la collina di San Paolo, Tremenzano, La Pilora, Solviano. La vendemmia era un lavoro molto impegnativo per l'intero paese, si mobilitavano donne, uomini, e asini, fabbri e falegnami. I ragazzi, di solito dovevano pigiare l'uva sui tini e sulle botti, su cui veniva legata la matrella con due grosse funi.

Si spolveravano e si bagnavano bigonce e tinelli; cominciavamo a bagnare con l'acqua molto calda le botti e il grande tino (ru laviegliu), per fare stringere le doghe. L'acqua si faceva bollire in un grande caldaio sulla fornace del cortile e vi si mettevano dentro pezzi di mele, pezzi di finocchio, foglie di lauro, un po' di nepitella, per dare profumo alle botti. Giorni e giorni bisognava bagnarle e girarle, fino a quando non sgocciolavano più. Ma spesso capitava che, mettendovi l'uva pigiata, o il mosto, sgocciolavano. Correvo con un coltello appuntito e la stoppa per riparare.

Le donne, anche quelle che non erano abituate ad andare in campagna, erano addette a tagliare i grappoli e a metterli nelle bigonce; alcune casalinghe avevano il compito di preparare i pasti per gli uomini a colazione, pranzo e cena. Gli uomini trasportavano l'uva sugli asini dai vigneti alle case. Sul basto dell'asino, con una fune si creavano due semicerchi, uno da un lato uno dall'altro lato, a una giusta misura per potervi infilare le bigonce e per poterle sfilare quando si dovevano scaricare. Si chiamavano ri iàcculi. Se si facevano pochi centimetri più stretti, diventava difficile sfilare le bigonce piene che pesavano circa mezzo quintale ognuna; se si facevano pochi centimetri più lunghi, le bigonce piene stringevano la pancia dell'asino che stentava a respirare. Pochi operai sapevano fare bene quel marchingegno.

I falegnami erano indaffarati a sostituire qualche doga, a stringere i cerchi alle botti, o a costruirne qualcuna nuova. I fabbri provvedevano a forgiare qualche cerchio occorrente, oppure allargavano o stringevano cerchi già esistenti. I ragazzi pigiavano l'uva con i piedi sui tini o sulle matrelle legate sulle botti. Alcuni erano contenti perché era per loro il primo lavoro e il primo guadagno. Da noi venivano a pigiare i cugini Petuccio e Guido da San Giuliano. Altre volte veniva Giannino, oppure Bernardino. Il tino aveva in alto un bordo di dieci centimetri, un piano inclinato verso il centro e un'apertura quadrata, al centro del piano inclinato, di quaranta centimetri di lato, con due portelli, uno a graticola per fare scorrere il mosto nel tino mentre si pigiava, un altro tutto compatto per chiudere il tino quando era pieno e la vinaccia doveva fermentare.

Sul tino si scaricavano due bigonce di uva, oppure quattro, se gli asini che trasportavano l'uva erano due. Quando pigiavo io ed aprivo il portello a graticola per spingere l'uva nel tino, avevo tanta paura di scivolare sul piano inclinato e di finire dritto dentro al tino, come è capitato un giorno a Lorenzo, il quale si salvò per un capello, aprendo le braccia, già con tutto il corpo nell'uva pigiata nel tino quasi pieno. Dal tino in fermentazione, si sprigionava una grande quantità di anidride carbonica, che toglieva subito il respiro. Mia madre mi raccomandava sempre di fare attenzione e di afferrarmi alla fune inchiodata appositamente sotto una trave.

Quando si vendemmiava ad Arauto con due asini e si scaricavano sul tino quattro bigonce, bisognava saltellare alla svelta sui grappoli, per pigiarli prima che arrivasse il viaggio successivo con altre quattro bigonce. Il terreno era vicino al paese e gli asini impiegavano poco tempo. Se non mi affrettavo a spingere nel tino l'uva pigiata sentivo i rimproveri e le lamentele degli operai, i quali dovevano scaricare dagli asini le bigonce piene e pesanti.

Le giornate si erano già accorciate e si lavorava con tutta la sveltezza possibile. Per poter fare quattro viaggi in un giorno, con la carretta da Maiorisi, nel pomeriggio del giorno precedente, si andava a preparare le sette bigonce che poteva portare la nostra carretta, in modo da trovarle pronte la mattina seguente e caricarle e subito partire. Si riusciva così a fare due viaggi prima di mezzogiorno e altri due nel pomeriggio. Quando arrivava l'ultimo viaggio, il quarto, era già notte.

Come si accarezzavano gli asini in quel periodo! Si dava ad essi il fieno migliore e molta biada, più nutriente. Si dava anche un misto di crusca, biada e carrube. L'asino percepiva la stessa giornata dell'operaio, perciò si riteneva fortunato chi lo possedesse e potesse impiegarlo durante la vendemmia. Quasi nessuno era disposto a fittarlo, per paura che lo caricassero troppo e lo trattassero male e lo facessero stancare o ammalare. Infatti si vedevano alcune povere bestie con i dorsi piagati, perché il non proprietario non si era dato pensiero di mettere sotto il basto un panno doppio piegato, oppure aveva fatto poggiare le funi direttamente sul dorso dell'asino anziché sul basto. Diceva zio Davide: "Bisogna essere gelosi dell'asino come della moglie."

Bisognava preparare il torchio per la spremitura e le botti per metterci il mosto. Avevamo cinque botti in cantina; dovevo riprendere dal fienile il fascio di tubi a gomito di latta e montarli, dal cortile alle botti. Quando si spillava il mosto veniva trasportato, dal cellaio all'ingresso della cantina con i quartaroni, recipienti di latta di undici litri (ogni quartarone era un quarto del barile locale). Avevamo un vecchio torchio, che si azionava con due barre di ferro, una più corta per la prima spremitura, l'altra più lunga per gli ultimi giri della vite. Lo aveva comprato mio padre a Teano nel 1925.

 

***

Nella seconda metà di ottobre e per tutto novembre, si correva per la semina del grano. Dico si correva, perché le giornate erano corte e pioveva spesso. Appena usciva buon tempo, bisognava approfittarne. Il 18 ottobre, ricorreva San Luca e nostra madre ci ricordava il vecchio proverbio: "Santu Gliuca, semmena ca Dio t'aiuta". Era anche difficile avere i buoi a disposizione, perché tutti i giorni erano impegnati, con prenotazioni in anticipo di una o due settimane. Da noi veniva zio Angelo da San Giuliano oppure il cugino Pasqualino da Maiorisi.

Prima lavoravano il terreno col prussiano, un grosso e pesante aratro di ferro con due ruote, una più grande che andava nel solco, l'altra più piccola che andava sopra la terra non ancora smossa. Dopo qualche giorno, o subito, appianavano le zolle con l'erpice di legno, seminavano il grano e lo coprivano, facendo passare di nuovo sul terreno l'erpice, tirato dai buoi. Se erano troppo impegnati sia lo zio sia il cugino, venivano a seminare, con le loro vacche, Bartolomeo Cusano oppure Giovanni De Marco. Era indispensabile in quei giorni, un operaio che, con la zappa, smuovesse la terra intorno alle piante e al limite del seminato dove giravano i buoi. Io e le mie sorelle aiutavamo, nostra madre era più impegnata per portare la colazione e il pranzo e il fieno per i buoi e la semenza.

Se si preferiva seminare il grano a porche, si lavorava il terreno con l'aratro di legno, tracciando le prime porche; poi queste venivano spaccate, si seminava il grano e, per coprirlo, sulle porche si passava un leggero erpice di legno, detto battarella, oppure, se il terreno era asciutto e sciolto, era sufficiente una corta scala a pioli, che poteva essere tirata anche dall'asina. Spesso toccava a me spianare le porche con la scala. La sera, nel timore che durante la notte piovesse forte, e rovinasse il seminato non ancora sistemato bene, si lavorava finché si faceva buio. E la mattina seguente bisognava uscire presto, prima che sorgesse il sole.

Spargere i chicchi di grano sul maggese era un mito; aveva davvero, in quei tempi, qualcosa di sacro. Non era facile spargere i chicchi in modo uniforme, né troppo folti né troppo radi. Si vedeva poi quando nascevano, se erano stati seminati bene, a debita distanza. Il seminatore, con un cinghia sulla spalla, si fissava davanti un particolare cestino col grano e lo teneva fermo con la mano sinistra, con la destra prendeva un pugno di grano e lo spargeva, in un gesto esperto e ritmato. Il segreto era nell'aprire la mano nella giusta misura e nel fare scorrere i chicchi fra le dita. Chi seminava doveva fare anche molta attenzione, per non mandare la semenza su quella sparsa in precedenza. Zio Angelo mi fece provare la prima volta a guidare i buoi con l'aratro, sia quello di ferro, sia quello di legno, molto più difficile, e mi fece provare, per la prima volta, a seminare il grano.

Andai a Maiorisi, alla massaria di Mesolella tenuta in affitto da Peppino Mancino per pregarlo di venire a seminare. Zio Angelo stava troppo lontano, a San Giuliano, per venire a seminare da noi a Maiorisi; Zio Antonio aveva comprato il grande mulino sul Savone e il cugino Pasqualino si era dedicato al mulino e non andava più con i buoi. Andai a piedi, scendendo per Le Forme e salendo poi per la massaria dei Guarriello di San Marco.

Da Peppino c'erano tre cani e cominciarono ad abbaiare. Mi fermai a distanza e chiamai. Si affacciò una donna e mi disse che Peppino stava ad arare con i buoi presso la ferrovia. Presi lo stradone e raggiunsi Peppino, il quale, vedendomi, diede la voce ai buoi e li fermò. Piantò sul maggese la stannatora e disse che aveva già capito che cosa andavo a chiedere. Fece un lungo discorso per spiegarmi che una settimana non gli bastava per seminare il suo terreno e che la prossima settimana l'aveva già impegnata con altre persone. Ad ogni modo, ci avrebbe tenuti presenti. Riprese ad arare ed io gli camminavo a fianco ascoltandolo e osservando come regolava la profondità del solco con la pressione delle braccia sulle stegole. Mi sorprendeva come il vomere, tutto lucido, rovesciava uniformemente le zolle.

Cominciava già la raccolta delle olive. Ragazzi e ragazze, con panieri di vinchi, andavano alla giornata a raccogliere le olive. Operai specializzati andavano alla giornata a bacchiare gli olivi, perché alcune piante tardavano molto a far cadere naturalmente le olive. Se il tempo era umido, le olive cadevano più facilmente; se spirava un filo di tramontana, era difficile e faticoso farle staccare. Passare otto-nove ore al giorno sui rami contorti degli olivi e agitare con forza la sfrustarella, un lungo bastone di legno resistente e flessibile, fra le cime per far cadere le olive, non era certo comodo né divertente. Ci si sentiva le gambe come rattrappite e le braccia indolenzite. Né era comodo raccogliere le olive sul terreno freddo, spesso ghiacciato e cosparso di fastidiosi cespuglietti d'erba.

Venivano a raccogliere le olive, insieme alle mie sorelle, i cugini Ermelindo, Lindoro, Ernesto, Amedeo (figli di zia Mariafelice), oppure venivano i cugini di San Giuliano Guido e Pietruccio (figli di zia Annetella). Altre volte, venivano Filomena Corea, Carminella Pecorone, Melinda Iannotta. Bisognava raccogliere anche le ghiande, che servivano per mangime ai maiali; in parte si mettevano al forno e si conservavano secche su nel fienile. A Solviano c'erano secolari querce da frutto.

Si raccoglievano le castagne. Si mangiavano sbucciate e lesse, con sale e foglie di lauro; si mangiavano a ballotte (ri vàlleni) o a caldarroste (le vrole); in maggior parte si infornavano e si conservavano per tutto l'inverno. Appena le cacciavamo dal forno, ben calde, erano tenere e squisite; le mettevamo in un grande cesto (ru cestriegliu) e si conservavano calde per qualche giorno.

Mentre stavo a pascolare i maialetti a Solviano, dove c'erano molti castagni lungo il rivo, affondavo qualche metro in un solco, vi accendevo un gran fuoco, aspettavo che si formasse la brace, vi spolveravo sopra un po' di cenere, vi mettevo ad arrostire le castagne e le coprivo con cinigia e carboni. Dopo una mezz'ora, le castagne sprigionavano un gradevole profumo e, ben cotte, erano davvero saporite: avevano un sapore intermedio fra le caldarroste e le castagne al forno.

Accanto al pozzo di sopra, a Solviano, avevo costruito, per gioco, un piccolo forno, con pezzi di vecchi mattoni e fango di argilla: ce n'era tanta, giù al rivo. Una sera, dopo il lavoro della giornata, stavamo seminando il pascone nella vigna, io e i miei cugini Petuccio e Guido raccogliemmo un fascio di rametti secchi di quercia, li accendemmo nel piccolo forno e, quando ci parve ben caldo, vi mettemmo un paniere di castagne e chiudemmo con un mattone. Dopo circa mezz'ora, assaggiammo le castagne e ci parvero buone. Una parte le mettemmo nel paniere, avvolte in un panno, e le portammo a casa. Erano ancora calde, e in famiglia stentavano a credere che le avevamo cotte nel piccolo forno.

Fu l'occasione per ricordare che, quando Giuliano di San Giuliano era venuto a scavare quel pozzo, una mattina aveva ripreso a scavare, mentre mio padre tirava su la terra col cesto. A mezzogiorno, mia madre aveva portato il pranzo e aveva chiamato Giuliano per farlo salire. Giuliano non saliva, girava torno torno sotto il pozzo e non saliva. Piuttosto sbadato e fanfarone, non si era accorto di avere allargato il pozzo a tal punto, che le sue gambe non riuscivano a toccare le fossette laterali per salire. Si dovette calargli una scala con la fune.

A Solviano, poco lontano dall'aia, c'era un castagno plurisecolare. Lo chiamavamo la pezzutella. Era il castagno che faceva le migliori castagne della zona. Svuotato completamente all'interno, il tronco diventava ogni anno dimora dei calabroni, di cui avevo tanta paura. Provammo più volte a scacciarli col fuoco, ma dopo alcuni giorni ritornavano. Una mattina, molto presto, prima che cominciassero ad uscire, zio Antonio fabbricò il buco con malta e pezzi di coppi. I calabroni aprirono un passaggio tra la malta e il legno.

 

***

Era il tempo di macinare le olive al frantoio che avevamo a San Giuliano. Capitava che dovevo preparare io la pasta da mettere nei fiscoli per la spremitura. Il frantoio era fatto di due locali, il primo, grande, in cui stava il pozzetto dell'olio e la gigantesca vite, fissata sotto un gigantesco tronco di quercia squadrato, appoggiato su due colonne laterali. Nel secondo locale, più piccolo, avevano costruito al centro il grande basamento con basoli di pietra vulcanica, su cui girava, tirata da un asino bendato, la grande macina che schiacciava le olive. Una prima volta le schiacciava, e bisognava disporre a cerchio al bordo del basamento quella specie di poltiglia. Dopo, una mezza palata per volta, con somma pazienza, bisognava ripassarla sotto la macina per ridurla in pasta. E la lucerna, appesa alla stanga che girava, creava un gioco interminabile di ombra e di luce, nascondendosi ad ogni giro dietro la macina e poi riaffacciandosi; e la stanga, ad ogni giro, aveva uno scricchiolio particolare, e l'asina bendata girava, girava. Veniva il capogiro e una grande sonnolenza.

Si macinava una pila per volta. La pila era fatta di sette cesti, circa un quintale e mezzo. Quando tutta la pasta era pronta, si fermava l'asino, gli si toglieva la benda e lo si metteva a riposare nella stalluccia. Il frantoiano metteva la pasta nei fiscoli e li sistemava in due colonnine uguali sotto la vite, che rimaneva alzata in alto. Poi la si abbassava e il tavolone di sei centimetri su cui poggiava cominciava a premere sulle due colonnine dei fiscoli. Tutti i presenti guardavano l'olio che gorgogliava in piccoli getti e scendeva a rccogliersi nell'apposito canaletto e scompariva nel pozzetto, accuratamente coperto. Momento delicato era l'apertura del pozzetto, per attingervi l'olio: il frantoiano, esclusivamente lui poteva svolgere quella funzione, assumeva l'aspetto di un sacerdote.

Il lavoro nel frantoio non si interrompeva mai, perché nella zona intorno a San Giuliano c'erano molti oliveti e le olive da macinare erano tante. Per la raccolta scarseggiava la manodopera e da San Giuliano, e anche da Cappelle e da Fontanelle, i proprietari scendevano a Casale e chiamavano a giornata gruppi di ragazze. Era nota la sveltezza di alcune e la lentezza di altre; quelle svelte trovavano facilmente lavoro. Si distinguevano, per la rapidità con cui riempivano il paniere, Italia Iannotta e Clmentina Torrico, detta Ntinozza. Italia sposò poi un sangiulianese, Davide Passaretti, e andò a vivere a San Giuliano.

Nel lastrico della grande stanza sopra il frantoio era stato praticato un buco in un angolo e da quel buco si facevano scendere le olive, che erano state messe ad asciugare. Si formava nell'angolo del frantoio un grande mucchio, da cui si riempivano i sette cesti della pila e si versavano in una tinozza accanto al basamento della macina. L'addetto alla macinazione, io quando macinavamo le olive nostre, con una grande pala di legno, vi attingeva una mezza palata per volta e cibava (così si diceva), cibava la macina che girava. Bisognava spingere le olive con attenzione e tirar via alla svelta la pala, altrimenti, trac!, e la macina spaccava la pala.

Mio padre era un lavoratore nato, appassionato e capace in tutto ciò che c'era da fare. Era conosciuto nel paese e nella zona come una brava persona, buona e onesta, che trattava bene gli operai, con rispetto e riconoscenza. Pagava anche bene e non lesinava mai sulla giornata, come facevano alcuni. Quando ero piccolo, si interessava lui di tutti i vari lavori, in campagna e in casa. Tanto più curava l'andamento del frantoio a San Giuliano, la macinazione delle olive e il trasporto e la conservazione dell'olio. Avevamo grandi brocche di creta a due anse, che venivano riempite al frantoio e sistemate ai lati della sporta sull'asina. Si adoperavano esclusivamente per trasportare e conservare l'olio. Per l'olio avevamo nella dispensa anche due ziri grandi e uno piccolo, poggiati su appositi supporti di legno. Col freddo di gennaio e febbraio, l'olio diventava tutto un pezzo bianco e sembrava sugna.

Mio padre, Giuseppe Napolitano, era nato a San Giuliano di Teano, il quindici agosto del 1872, da Pasquale Napolitano e da Rosa Narducci. Aveva tre sorelle: Giuseppella, Mariuccia, Annetella, e tre fratelli: Antonio, Angelo, Tommaso. Aveva sposato mia madre, Carolina Rossi di San Donato di Carinola, la quale era figlia di Francesco Rossi e di Clementina Rotunno, e aveva una sorella, Mariafelice, e quattro fratelli: Feliciano, Amerigo, Pasquale, Michele. Da San Giuliano, i miei genitori si erano trasferiti a Casale, perché zio Nicola, fratello di mia nonna paterna, avendo perso nella spagnola del diciotto i due giovani figli, seminaristi al seminario di Sessa, donò a mio padre, suo nipote diretto, la casa e il terreno a Solviano.

La mia prima sorella Rosa rimase a San Giuliano, in casa dei nonni, per assistere la vecchia e disabile nonna Rosa. Poi si sposò con Girolamo Tammelleo, sangiulianese, e rimase a vivere a San Giuliano.

Quando mio padre morì, il quindici aprile del 1927, avevo tredici anni. Sentii crollarmi il mondo addosso. Mancando la solerte guida di mio padre, toccava a noi, mia madre, io e le mie sorelle, prendere la guida dell'azienda agricola e della casa. Mia madre era avvilita, io ero disperato e non mi sembrava possibile tirare avanti. I petali variopinti delle belle corolle dei sogni scolorivano, appassivano, si rattrappivano, cadevano. Il vento li disperdeva. Vedermi avanti agli occhi mia madre e le mie sorelle tutte vestite di nero, a lutto, mi dava una pena che mi portavo dentro, compressa e lacerante. Mi chiedevo, senza trovare una risposta, mi chiedevo che cosa sentisse, che cosa provasse la mia sorellina Angelina, di sette anni, un fiorellino vestito a lutto.

Quando moriva una persona, si usava che i parenti portassero alla famiglia del defunto il cosiddetto cuónsulu, cioè un pasto caldo, per evitare che la famiglia dovesse cucinare per mangiare. I parenti si mettevano d'accordo su chi dovesse andare il tale giorno o in altro giorno. I parenti più stretti portavano il cuónsulu la sera stessa del funerale: un piatto di pastina in brodo, carne lessa e qualcos'altro. Piano piano, però, il cuónsulu divenne un pranzo da grande festa; e si faceva a gara per portare le migliori pietanze e nessuno voleva essere inferiore agli altri. A me dava un fastidio enorme dover mangiare quel cibo. Notavo che lo stesso fastidio sentivano mia madre e le mie sorelle.

C'erano famiglie che, uscito il morto da casa, per una settimana non accendevano il fuoco e, addirittura, qualcuna non apriva neppure le finestre: dicevano che era un rispetto per il defunto. I parenti più larghi si mettevano d'accordo per portare il caffè. Ogni mattina, una parente si presentava insieme a Ngiulinella la bigliardera (Angela Marrese moglie di Emilio Ullucci), la quale portava una grande caffettiera piena di caffè, un vassoio con le tazzine e due pacchetti di biscotti. I coniugi Ullucci-Marrese gestivano un bar in Piazza Monumento e avevano l'unico bigliardo del paese.

La medicina del tempo è la migliore medicina nelle sventure; non che riesca a cancellarle, ma le allevia, le cicatrizza. Via via che gli anni passavano, mi appassionai ai diversi lavori, alle piante, ai vigneti, agli innesti, e divenni un buon agricoltore. Innestavo dalle rose ai castagni, e viti, pèschi, susini, meli, peri, fichi, olivi, ciliegi, albicocchi, a spacco, o occhio, a fischietto, a corona, a spacco inglese, a doppio spacco inglese. Ad Arauto provai ad innestare persino due lupini selvatici, con i lupini grandi (ri pullecani). Attecchirono e fecero due ciocche normali. Salvatore e Paoluccio venivano a pompare e si meravigliavano. Potavo le viti, zappavo il terreno, piantavo i castagni sui ciglioni dei rivi, seminavo il grano, battevo il grano col correggiato, preparavo il tino e le botti per la vendemmia, spillavo il mosto e preparavo le botti in cantina.

 

***

Nel 1929, una mattina, dovevamo andare a Maiorisi a cogliere i fichi, io e Giannino Corea. Preparai panieri, uncini e funelle; cacciai l'asina dalla stalla e le misi i finimenti per attaccarla alla carretta. Mia madre stava preparando il pane per il giorno; mi chiamò e mi disse di andare a bagnare le botti grandi nel cellaio, perché fra pochi giorni dovevamo vendemmiare. Tirai un secchio d'acqua dalla cisterna, presi una scopa e andai nel cellaio, seguito da Giannino. Gli diedi secchio e scopa e salii su una delle botti. Giannino mi allungò secchio e scopa e bagnai bene la botte. Dopo, ridiedi secchio e scopa e mi accingevo a scendere; scivolai su un cerchio bagnato e mi trovai a terra con una tibia spezzata.

Chiamarono subito il medico don Enrico Ruosi, il quale mi visitò e disse che per il momento non c'era niente da fare. Mi lasciò a strillare e a lamentarmi per due giorni e poi mi ingessò la gamba. Vennero le donne del vicinato, vennero i parenti da San Giuliano, vennero i parenti da Casale, venne zio Angelo da Sessa. Tutti chiedevano che cosa fosse successo e come era successo. Seppi dopo un paio d'anni, dalle mie sorelle, che quella mattina nostra madre mi aveva detto di andare a bagnare le botti per ritardare la nostra partenza per Maiorisi. Durante la notte c'era stata pioggia e i rami dei fichi erano bagnati. Dovendovi salire, sarebbe stato facile scivolare e cadere. Che cosa si muove nel nostro subconscio non lo sappiamo, e forse non lo sapremo mai. Caddi dalla botte, per il timore di mia madre che cadessi dai fichi.

Molte volte mi è capitato di pensare di essere ancora vivo, per l'errore di don Enrico, il quale mi ingessò la gamba mettendo il pezzo della tibia, attaccato al piede, non in corrispondenza della tibia della gamba, ma spostato di lato di qualche centimetro. Il dolore mi era insopportabile, e strillavo notte e giorno. Richiamarono il medico. Pensando di aver fatto la fasciatura troppo stretta, da impedire la normale circolazione del sangue, don Enrico si fece dare una forbice da puta, e tagliò da un lato il gesso. Il dolore continuò, per il semplice fatto che l'osso rotto non stava in corrispondenza dell'altro. Si formò così un callo osseo deforme che sporgeva visibilmente dalla gamba. Quando fui chiamato alle armi, era già cominciata la seconda guerra mondiale; mi presentai al distretto di Caserta. Un capitano medico mi visitò e mi assegnò al 31° Fanteria. Gli feci notare il callo osseo, mi rimproverò per non averglielo detto prima, e mi passò alla 35^ Sanità di stanza a Palermo. La mattina seguente, scendemmo nel cortile dalle camerate e notammo che molti compagni del giorno precedente non c'erano più. Ci dissero che prima dell'alba il 31° Fanteria era partito per il fronte greco-albanese. Seppi più tardi che il reggimento aveva subito una vera carneficina: soltanto pochissimi soldati si erano salvati. Sarei tornato? Mi sarei salvato? Domanda senza risposta. Io e i miei compagni, assegnati alla Sanità, partimmo il giorno stesso per Palermo.

A Palermo c'erano quasi ogni giorno partenze per l'Africa. Prima di partire, i soldati venivano visitati. Il capitano medico che mi visitò, vedendo il callo osseo deforme alla gamba destra, non mi fece partire. Un'altra occasione si presentò alla Scuola Paisiello di Napoli. Facevo parte di un gruppo di complementi, mobilitati per il fronte, destinazione ignota. Alla immancabile visita medica, alcuni furono fatti partire per la Russia, altri, compreso me, sempre per il callo osseo deforme alla gamba, fummo spediti all'isola di Creta. Sarei tornato dalla neve e dal freddo della Russia? Domanda senza risposta. All'isola di Creta, invece, lo stesso inverno non era freddo, e a fine gennaio c'erano i mandorleti fioriti in un candore meraviglioso. E non c'erano combattimenti. Alloggiavamo in tranquilli paesi occupati.

 

***

Un disagio che mi pesava era la vecchia usanza di distribuire ai presenti un assaggio del proprio companatico, quando a mezzogiorno con gli operai mangiavamo in campagna. Capitava che una donna portava un cantuccio di pane e due alici salate. Se eravamo in quattro persone, divideva un'alice in tre parti e ne dava un pezzetto ciascuno. Per sé rimaneva l'altra alice. Certi giorni nostra madre metteva nell'involto i pomodori secchi fritti, e io non sapevo come dividerli. Capitava anche che qualcuno portasse le bucce di fichidindia, seccate e poi fritte con pochissimo olio in una padella di ferro non stagnata. Sapevano di ferro ed erano dure come il cuoio. Con che coraggio dovevo ingoiare quella che mi davano; né potevo buttarla, sarebbe stata una grave offesa a chi l'aveva offerta.

Una mattina andai a Madonna delle Grazie a sfoltire i polloni dei ceppai dei castagni, lungo la ripa sul rivo. Era una giornata fredda, soffiava la tramontana e ogni tanto spingeva un po’ di nevischio. In alcuni punti il pendio della ripa era scosceso e bisognava muoversi con prudenza sulle foglie bagnate e scivolose, che celavano fossatelli pericolosi. Avevo una ronca affilata e lavoravo alla svelta per sentire meno freddo. Ogni tanto, la frustata di vinco mi dava una fitta sulle mani, o, peggio, sugli orecchi.

Stavo passando da una ceppaia all'altra, quando mi scivolò un piede e ruzzolai verso il rivo, fra i vinchi che mi sferzavano il viso. Mi correva veloce nella mente il pensiero che al termine della ripa c'era uno strapiombo di quattro metri sul rivo e che nel greto del rivo c'erano macigni di pietra lavica. Sentii un forte colpo in un fianco e mi trovai fermo, disteso su una piccola sporgenza della ripa, trattenuto da un giovane carpino. Presi fiato e guardai le grosse pietre, che forse mi stavano aspettando ed erano rimaste deluse. Sentivo il fianco ammaccato e dolorante, ma guardai con gratitudine il carpino che mi aveva fermato.

Una sera tornavo da Solviano con un gruppo di potatori. Davanti alla casa dei Taffuri, incontrammo il parroco Bianchini e il maestro don Pasquale Aurilio, i quali facevano la passeggiata serale. Saluti di convenienza e inchini da parte degli operai. Dopo alcuni passi, patino Ciummetiegliu sbottò: "Chella è vita!"; alludendo allo stipendio che percepiva il maestro, trecento lire al mese. La giornata lavorativa degli operai agricoli era salita da quattro a cinque lire. Raramente gli operai agricoli riuscivano a lavorare cinque o sei giorni nella settimana, spesso trovavano lavoro per tre o quattro giorni, o, peggio, stavano disoccupati.

Improvvisamente, Giaco si mise davanti ai compagni, con le braccia aperte per fermarli, e disse: "Ci pensate? Anche la domenica il maestro prende dieci lire. Noi, niente". Prese fiato e aggiunse, come se dovesse fare una rivelazione originale: "Ci pensate? La mattina di Pasqua, don Pasquale si sveglia e trova dieci lire ammaturate sott'a ru cuscinu". Intervenne Salvatore e precisò: "Ma il parroco guadagna molto di più, tra la rendita delle terre della parrocchia, le messe a pagamento e i matrimoni e i battesimi e le feste e i funerali". Più volte avevo sentito dire che per le feste in paese, con la immancabile processione, il parroco chiedeva in anticipo alla commissione una taglia pesante, altrimenti non dava l'autorizzazione per la festa. Spesso mi tornò in mente quella sottile e fantasiosa immagine delle dieci lire ammaturate sotto il cuscino la mattina di Pasqua.

***

Per avere un'idea della enorme distanza, a cui si era abituati e rassegnati da secoli, nel paesi del Sud, tra chi stava in basso e chi stava in alto, tra chi si doveva sporcare con la terra, come si diceva, o che comunque esercitava un mestiere povero, e chi aveva uno stipendio fisso o, meglio, poteva vivere di rendita, si ricordava il caso di Concetta dell'Ariavecchia.

Era d'estate. Il duca Ettore Carafa, duca d'Andria, era venuto a passare un certo periodo, con la famiglia, alla masseria di sua proprietà. Concetta, affittuaria, per non sentirsi a disagio a cucinare insieme alla duchessa, ed anche per darle maggiore libertà, aveva messo tre pietre davanti alla masseria, vi aveva acceso in mezzo il fuoco e aveva messo a cuocere un pignato di fagioli per il pranzo. A mezzogiorno, prese il pignato con i fagioli cotti e stava per rientrare in cucina. In quel momento, la duchessa uscì sulla porta e disse: "Chiamate Ettore". Il duca era andato a vedere i castagni da tagliare sul rivo. La duchessa notò che Concetta non aveva capito e, senza ripetere la parola chiamate, disse soltanto, e con voce piuttosto imperiosa: "Ettore, Ettore!" Concetta gettò il pignato, che andò in pezzi, e i fagioli cotti si sparsero nella polvere. La duchessa sbarrò gli occhi e chiese perché lo avesse buttato. Concetta, al posto della parola Ettore, aveva capito iètteru, cioè gettalo, e, per rispetto alla signora duchessa, aveva gettato il pignato con i fagioli cotti. Ogni tanto, anche mia madre raccontava il caso di Concetta, sorrideva e aggiungeva: "Con tutto il rispetto per la signora duchessa, io il pignato di fagioli già cotti non l'avrei buttato".

Aitanu Corea veniva da noi a tagliare i castagni dei ceppai, servivano come pali per le viti; veniva a tagliare qualche quercia per la legna. Quando tagliava i castagnuoli di otto-nove anni, li abbatteva con due colpi, uno da un lato, uno dall'altro lato. Aveva una scure di circa due chili, affilatissima. Ogni tanto, durante il lavoro, cacciava dalla tasca una pietra a smeriglio (la usciarella) e affilava la scure. Sorrideva e diceva che alla scure bisognava lavare la faccia. Si compiaceva di far notare agli astanti che con la lama della scure si tagliava un po' di peli sul polso.

Aitanu veniva sempre ad aiutare quando dovevamo scendere o salire una botte dalla cantina, quando c'era da spostare una delle grani botti nel cellaio, quando si scannavano i maiali. Un giovedì aveva bisogno di andare al mercato a Sessa e ci chiese in prestito l'asina e la carretta. Mia sorella Palma disse che ci doveva andare anche lei al mercato a Sessa. Partirono, Aitanu seduto sulla selletta davanti e la moglie Cecilia e mia sorella Palma al centro. Alla fine della discesa di Cascano, prima del ponte di Sant'Agata, l'asina, con uno spruzzo forte ed improvviso, impiastricciò la giacca e i pantaloni di Aitanu, il quale, per l'occasione, aveva messo il vestito nuovo. Fermarono la carretta, scesero. Cecilia raccolse un fascetto di felci in una cunetta e cercò di pulire il marito che puzzava. Ripartirono. La puzza persisteva. Mentre attraversavano Sant'Agata, un altro spruzzo. Si fermarono. Cecilia, previdente, aveva appoggiato sulla carretta un altro mannello di felci e cercò di utilizzarli. Mentre passavano nel mercato a Sessa, la gente guardava e si stringeva il naso con la mano.

 

***

Ai primi di dicembre, e più verso la metà del mese, gli operai discorrevano tra di loro come avrebbero passato il prossimo Natale, come le mogli e le madri avrebbero preparato il cenone della sera della vigilia. Discorrevano del pranzo del giorno di Natale, dell'agnello al forno con le patate, di una speciale bottiglia di malvasia, appositamente conservata, delle castagne che avevano messe in cantina nella sabbia, per farne le caldarroste. Parlavano di maccheroni e di ragù, di zeppole e galani, di auciati e mostaccioli, parlavano dei vari falò, che i giovani stavano preparando nei quartieri.

Se ne faceva uno ai Vignali, uno al Vico, uno alla Merta, uno davanti alla chiesa. Nasceva una specie di tacita gara tra quelli che preparavano i falò: ogni gruppo cercava di farlo più grande degli altri, e durante la notte giravano con un carretto per le campagne e raccoglievano tutta la legna che trovavano e tronchi secchi, ceppi, travi. Se avevamo su un terreno tronchi da segare per farne tavole o doghe, li portavamo in casa nei cortili, per timore che li prendessero per i falò.

Nel pomeriggio della vigilia, trascinavano sul posto il materiale raccolto e chiamavano un carbonaio, al quale affidavano l'incarico di comporre con arte il falò. Il carbonaio metteva prima alcuni fasci di paglia, sopra vi metteva le fascine di sarmento, poi la legna piccola, sopra i tronchi più grandi e, in ultimo, i grossi ceppi, facendosi aiutare a sollevarli. Appena dava fuoco, si sprigionavano fiamme altissime, e la gente che si era radunata intorno batteva le mani con ovazioni di gioia. Alcuni ragazzi si divertivano a gettare tra le fiamme i piccoli petardi, che scoppiavano e sollevavano colonne di faville.

Qualche vecchio brontolone, quasi che essere contenti potesse considerarsi una specie di irriverenza a Dio, non dimenticava di ricordare il proverbio "Prima Natale, nu friddu, nu fame; roppu Natale, friddu e fame".

Dopo Natale, gli operai raccontavano come lo avevano trascorso, come avevano mangiato, come si erano divertiti. Elencavano parenti e amici che avevano tenuto buona compagnia, e avevano partecipato al tradizionale gioco della tombola. Intanto, discorrevano di come avrebbero passato il prossimo Capodanno e dei programmi per l'anno nuovo. Antonio Cipro osservava: "Tuttu ru iuornu zappammu e mangiammu pane e rapeste; po ve' Natale, ve' Pasqua, ve' Santu Marcu, stammu a spassu, e mangiammu carne e maccaruni". Voleva dire che gli sembrava ingiusto tutto quello spreco di ben di Dio e il rimpinzarsi nei giorni di festa, e poi per mesi e mesi dover lavorare e dover masticare un tozzo di pane e un po' di olive.

La vigilia di Capodanno, si usava dare gli auguri a parenti, ad amici, a conoscenti. Venivano a casa nostra la famiglia di zia Mariafelice, la famiglia di zia Mariuccia, gli operai che più frequentemente lavoravano da noi. Si alimentava un gran fuoco, si prendevano le castagne secche da mettere sotto la cinigia, si metteva sulla tavola l'immancabile bottiglia di vino, si giocava a tombola, le persone anziane raccontavano tante vicende della vita di campagna.

Alcuni anni, la sera di San Silvestro, ci riunivamo un gruppo di amici e andavamo a San Giuliano, a dare gli auguri ai parenti. Per la strada soffiava una gelida tramontana che sembrava volesse graffiarci il viso. Alzavamo il bavero del cappotto, calcavamo la coppola in testa, ci curvavamo davanti, perché la tramontana ci sferzava proprio di fronte. Molte cose inutili, a volte dannose, fa fare la giovinezza. Invece di starcene in casa, al calduccio accanto al fuoco, andavamo nel buio, sotto le stelle, in quel freddo pungente.

Dopo l'Epifania, il sei gennaio, spesso si sentiva ripetere il vecchio proverbio: "La Befana, femmene filate, ca le feste su' passate". Ma non si voleva dire soltanto alle donne di riprendere le faccende domestiche, si voleva ricordare a tutti che bisognava lavorare, lavorare sempre, quasi fosse stato un peccato avere smesso per qualche giorno di festa.

Stavamo potando a Solviano. Salvatore controllava i pali se si reggevano bene. Alcuni dovevano essere sostituiti e con la vanghetta scavava la buca. Io portavo i pali occorrenti, dal mucchio sul ciglio della ripa, dove nei giorni precedenti li avevo scorteggiati, perché senza la corteccia duravano di più. Paoluccio attaccava i tralci ai pali con i vinchi d'olmo ritorti. Nella vigna c'era un olivo isolato, che da molti anni non era stato potato e si era caricato di rami e frasche. "Questo olivo avrebbe urgente bisogno di essere potato", osservarono insieme gli operai. Dissi che era stato trascurato, perché era una pianta isolata, e zi' Antimiegliu di San Bartolomeo, un esperto potatore di olivi, il quale proprio in quei giorni era stato a potare l'oliveto a Madonna delle Grazie, non aveva avuto tempo di recarsi a Solviano.

Terminata la sostituzione dei pali, Salvatore si mise ad attaccare insieme a Paoluccio. Io andai alla masseriella, presi una scala a pioli, l'appoggiai al tronco dell'olivo, piuttosto alto, e salii. Avevo portato una leggera accettolla, col manico infilato nella cintura. Cominciai a tagliare i rami superflui ma, come fu come non fu, il manico mi sfuggì di mano e l'accettolla cadde e si conficcò con la lama nel terreno sottostante.

Salvatore e Paoluccio stavano pochi passi lontani. Paoluccio guardò e tentennò il capo, Salvatore osservò: "E se per caso qualcuno di noi si fosse trovato a passare lì sotto?" Rispose Paoluccio: "L'accettolla gli avrebbe spaccato la testa". Mi sentii fortemente umiliato da quella mia distrazione. Mogio mogio scesi a riprendere l'accettolla, e mi domandavo in silenzio come fosse accaduto, consapevole del rischio che mi era capitato, per fortuna senza conseguenze.

 

***

Dopo una giornata di lavoro nella vigna, una sera tornavamo da Maiorisi sulla carretta, stanchi e infreddoliti, io, mia madre e mia sorella Fiorenza. Era stata una giornata rigida, con vento e nevischio. Arrotolati nei nostri panni, io sedevo sulla selletta davanti e guidavo l'asina, mia madre al centro, Fiorenza dietro. Arrivammo alla stazione di Maiorisi e due carabinieri ci fermarono. Guardarono le targhe fissate sulla stanga e dissero che eravamo in contravvenzione, perché una targa non era chiaramente leggibile.

"Non facciamo storie" dissero. "Siete in contravvenzione. Dateci nome, cognome e indirizzo. O pagate subito o verrete a pagare in caserma". Mia madre cominciò a pregare, a implorare: "Veniamo dalla campagna, dal lavoro. Sono rimasta vedova. Perdonateci almeno per questa volta". Non capivo di che cosa dovevamo essere perdonati. La tassa l'avevamo pagata, e la targa c'era, inchiodata sulla stanga. I carabinieri ci guardavano, con autorità e con disprezzo, come se fossimo dei malfattori. Avevano facce ferrigne, avevano i fucili. Si sentivano forti e sicuri di fronte a una popolana vestita di nero e a due bamboccetti impauriti dalle loro divise luccicanti.

Cercavo di spiegare che la targa si leggeva, anche se in un angolo era comparsa un po' di ruggine. La gola mi si ingroppava, sentendo mia madre che continuava a pregare con voce umile e commossa: "Torniamo dalla fatica in campagna; soldi non ne portiamo; non facciamo male a nessuno". Mia sorella piangeva, in silenzio. L'asina batteva gli zoccoli sulla strada. Forse capiva di più.

Il giorno dopo, dovetti recarmi a San Marco, a pagare la contravvenzione. Poi mi portai al terreno a Maiorisi, dove stavano zappando nella vigna Antonio Cipro e i figli Maria, Terigio e Giulietta. Si parlò dell'accaduto. Mi colpiva quel sospirare lungo e significativo di Antonio, un lavoratore tanto buono e onesto: "Ah, figli miei, voi ne sapete ancora poco della legge!"

Intanto, mettevo i lupini intorno alle viti e, nella mia inesperienza, cercavo di immaginarmi la legge; ma davanti ai miei occhi vedevo soltanto le facce ferrigne dei due carabinieri, che ingiustamente avevano umiliato mia madre e avevano fatto piangere mia sorella.

 

Note biobibliografiche su Nicola Napolitano

 

in rete dal 1999

 

meteo Carinola

 

il Comune

sito istituzionale