Ida Maina - Del mio tempo migliore

Sulla struttura concisamente storica del romanzo s'innestano le vicende reali che si svolsero tra gli ultimi anni dell' Ottocento ed il primo ventennio del Novecento, coinvolgendo fatti e personaggi nel turbinio dell'arroventata situazione socio-politica precedente e conseguente alla prima guerra mondiale.

L'io narrante, attraverso il racconto delle vicissitudini della propria vita, fa rivivere la semplicità di un ambiente ancestrale, con una puntigliosa rievocazione delle abitudini, dei costumi e dei comportamenti istintivi, che fanno da contrappunto ad una storia sentimentale, che affiora costantemente, con più o meno intensità e calore, costituendo il 'leitmotiv' della trama.

Un velato senso morale percorre il tessuto del romanzo, nell'evidenziare la tenace lotta del protagonista contro ogni avversità della sorte, senza prescindere, peraltro, dalla fatale e ineluttabile condizione dell'uomo.

Lo stile volutamente discorsivo conferisce al romanzo un tono familiare e coinvolgente, con una punta, a volte, d'ironia.

  

 

Capitolo I

Correva l'anno 1893

  

La piazzetta, ancora deserta, era illuminata a sghimbescio dai raggi del sole che si posavano già fervidi sui tetti e vivificavano i colori dei gerani e dei garofani occhieggianti dai balconi non ancora aperti al tepore della primavera, ormai inoltrata.

Il rumore della fontana, che vomitava dalla bocca del leone il fiotto d'acqua, che nel suo inarrestabile fluire, sembrava voler scuotere gli spiriti ancora addormentati, si percepiva fino al crocevia per Fontanelle.

Era un giorno particolare: gli operai non andavano a lavorare, tutti infervorati dal nuovo clima politico che si voleva instaurare e pronti a partecipare all'adunata a Carinola dove, si diceva, sarebbero affluiti i lavoratori da tutte le frazioni del Comune.

Precedentemente, avevano preso accordo che si andava tutti o, almeno, quelli che erano in grado di alzare i tacchi per sette, otto chilometri di andata ed altrettanti di ritorno.

Anche Marcuccio, il barbiere, che, generalmente, apriva di buon'ora i battenti della sua bottega, aveva lasciata chiusa la porta per dare ad intendere che aderiva alla protesta dei lavoratori, anche se qualcuno l'aveva visto sgattaiolare, con la borsetta degli utensili sotto il braccio, nel vicolo dei Trabucco ed entrare nel palazzo dalla porta di servizio.

Invece, Lorenzo, il bidello della casina , non aveva rinunciato al suo lavoro abituale e si affacciò sulla porta, perlustrando la strada con gli occhi di rana, mentre ammucchiava a colpi di scopa il pattume abbondantemente incorporato di mozziconi di sigari e di cartine di sigarette "Tanto - andava mugolando - che posso fare io che me ne sto qui dentro dalla mattina alla sera e non lavoro né con la falce, né col martello?"

"Tu non vieni?" gli aveva gridato con voce carica di rimprovero Mariano, il calderaio, che temeva di un ripensamento degli altri, vedendo che nessuno a quell'ora si era presentato nella piazzetta; così avrebbero tradito la promessa, fatta la sera prima a lui, che aveva assunto 1 'impegno col compagno di Sessa, Sciarretta, di convincere quante più persone potesse.

Lorenzo alzò le spalle senza rispondere, con gli occhi fissi a terra, fingendo di essere assorto a lustrare con la scopa lo scalino della porta d'entrata della casina.

Un rumore di scarpe chiodate ed un fischiettio acuto e ilare dissiparono ogni timore: chi da solo, chi in compagnia di altri, quasi tutti arrivarono all'appuntamento. Erano uomini dal viso ferrigno, sotto il cappello nero calcato fin sulle orecchie; poche erano le teste coperte soltanto da capigliature folte e giovani che emergevano dalla massa.

Alle nove e qualche minuto partirono i più puntuali, raggiunti a calcagni levati da quelli che abitavano più lontano o che avevano dovuto sbrigare qualche faccenda prima di allontanarsi da casa.

Io e Raffaele, due ragazzetti rispettivamente di nove e di dieci anni, eravamo già nella piazzetta a quell'ora. Qualche giorno prima, avevamo orecchiato di qua e di là ed avevamo appurato che ci sarebbe stata a Carinola quest'adunata di cui molti parlavano sfregandosi le mani e giubilando, che pochi biasimavano come cosa inutile ed illusoria.

Decidemmo di andare anche noi per vedere che avvenisse, come se andassimo ad una festa di paese.

"Corri, Peppì"- gridò Raffaele, dandomi una pacca sulla spalla e calcandosi sulla testa il berretto, che, per essere di misura abbondante, nella corsa era sempre in procinto di volare dal capo. Con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni cercammo di seguire la massa, che, camminando con sguardo diritto in avanti, a passo spedito e cadenzato, sfregava la strada coi chiodi delle scarpe di vacchetta, che lasciavano dietro una scia di polvere bianca; il rumore si attutiva ai margini della strada, dove venivano schiacciati i variopinti fiorellini, timidamente occhieggianti tra le erbette fresche che avevano riempito i fossati, dopo le frequenti pioggerelle delle passate settimane.

Il passo celere degli uomini divorava la strada in modo strabiliante, per cui vedevamo sempre più lontana l'onda del gruppo e ci mettemmo di gran corsa per raggiungerlo, ma quanto più credevamo di avvicinarlo, tanto più vedevamo che la distanza aumentava, per cui alla fine, affannati e convinti di non potercela fare, ci rassegnammo a seguirlo a distanza, senza perderlo di vista.

Ma non passò molto tempo che scomparve al nostro sguardo; non capimmo come fosse accaduto ciò, tuttavia non rinunciammo al proposito di andare a Carinola, dove si teneva l'adunata, anche perché fummo raggiunti da due casalesi, Pasquale e Luigi, che ci diedero chiarimenti sulla strada da percorrere.

Improvvisamente udimmo un rumore vibrante e schioppi di frusta, mentre camminavamo saltellando e rincorrendoci, come se fossimo stati i soli padroni della strada: sorpresi in questa illusoria libertà, prudentemente e di corsa ci accostammo al margine della strada, quasi rasentando il fosso, mentre passava Giovanni, il caporale, che, non volendo essere l'ultimo, si affrettava a raggiungere i suoi operai, spronando il cavallo che, sotto la pressione delle redini, tirate come corde di uno strumento, faceva sobbalzare, nella furia sfrenata, il carrozzino squassato e sibilante. Non rallentò neppure quando fu vicino ai due casalesi che, conoscendo "la frenesia del caporale", si rifugiarono l'uno a destra e l'altro a sinistra della strada, mentre Giovanni, girando il capo di qua e di là, col suo sorriso schiacciato sulla rotondità del viso, voleva dare ad intendere che era dalla loro parte. Fu contento di vedere le mani alzate per salutarlo. Pasquale, colpendo col gomito il fianco di Luigi, gli disse sottovoce:

"Pensi che Giovanni è contento di questo cambiamento?"

Luigi arcuò le labbra sui denti che sporgevano come zeppe, senza pronunciarsi.

E Pasquale continuò:

"Potrà ancora spremerci come limoniE comandarci a bacchetta?"

Era la prima volta che facevamo quel percorso ed era la prima volta che vedevamo i vigneti stendersi a destra ed a sinistra della strada. Già le foglie, di un tenero verde coprivano i tralci tesi ed allineati come corde di un'arpa smisurata.

Arrivati alla "Croce", dove appunto la via Appia interseca la strada che scende da Casale e forma una croce con l'altra stradetta che, di fronte, si allunga tra i campi, ci guardammo perplessi e, nonostante le indicazioni dei due casalesi che, allungando il passo, si erano allontanati, non sapevamo se volgere verso destra o verso sinistra. "Eccoli là - esclamai, indicando la strada che, dopo duecento metri, s'innesta alla Appia portando diritta, diritta a S. Donato. Infatti, pur essendo il gruppo degli scioperanti lontano qualche chilometro, poteva essere visto anche in lontananza, poiché iniziava dalla Croce una pianura vasta e brulla che non opponeva alcun ostacolo allo sguardo.

Cercammo di affrettare il passo, ma già le gambe si rifiutavano di continuare quel cammino iniziato con tanto entusiasmo; incominciammo a cercare con lo sguardo i sassolini che erano sulla strada ed a spingerli di qua e di là con la punta della scarpa quasi volessimo così giustificare con noi stessi quel rallentamentoAnche lo stomaco vuoto faceva già sentire i suoi morsi.

Là non c'era un masso, non un tronco su cui sedersi per riposarsi un po', né un albero di frutta da poter saccheggiare.

Dopo imboccata la strada per S. Donato, percorsi pochi metri, finalmente ci trovammo su un ponticello, ai cui lati si alzavano due muretti in precarie condizioni che, tuttavia, proteggevano i passanti dal precipitare nel burrone sottostante profondo e roccioso. Io fui più svelto a saltare a cavalcioni del muretto lasciando penzolare le gambe dall'una e dall'altra parte; Raffaele ritenne opportuno riposarsi anche lui e, sbirciando il burrone che minacciosamente si sprofondava sotto il ponte, alzandosi sulle punte dei piedi, riuscì a sedersi sul parapetto con prudenza e senza spavalderia. Ma, mentre stavo nella posizione di uno che stia cavalcando e impegnavo la mia fantasia ad immaginarmi su chissà quale destriero per viaggi favolosi, Raffaele, che sentiva brontolare lo stomaco forse più di me, guardava la campagna dove incominciava ad infittirsi di piantagioni e di alberi; scorse, così, non molto vicino, ma neppure tanto lontano, un ciliegio carico dei suoi frutti dolci e polposi. Perché non tentare di calmare la fame, dato che certamente non avremmo avuto altre opportunità, prima di tornare a casa per il desinare?

Questo pensiero ci rimuginava e bastò uno sguardo d'intesa e via di corsa, facendo a gara per arrivare più velocemente sull'albero; dopo meno di un quarto d'ora fummo belli e sazi delle gustose ciliegie. Infilammo le giacche che avevamo appese alla cima di un cespuglio di biancospino, per essere più liberi di salire sul ciliegio, e riprendemmo il cammino più baldanzosi di prima, dandoci gomitate e zigzagando sulla strada bianca.

In brevissimo tempo, arrivammo alle prime case del paese; venimmo a sapere, però, che quello non era Carinola, come avevamo creduto nel primo momento, ma S. Donato, dove avevamo sempre sentito dire che c'era la Stazione ferroviaria, da cui si partiva per Sparanise da una parte e per Formia dall'altra.

Avevamo percorso pochi metri, quando vedemmo la strada sbarrata da due aste pitturate a strisce bianche e rosse che, sostenute da paletti di ferro, si allungavano parallelamente, all'altezza di più di un metro. Non capimmo che quello era un passaggio a livello, né che le due strisce lucide, che si allungavano a terra e di cui non si vedevano l'inizio e la fine, erano binari; del resto, non avevamo mai viaggiato in treno, né l'avevamo visto se non in qualche illustrazione, che arricchiva la fantasia di immaginarie e favolose avventure.

Misurammo ad occhio l'altezza delle sbarre e sicuri che, abbassandoci, potessimo certamente andare dall'altra parte, stavamo per passarci di sotto, quando fummo fermati dalla voce imperiosa di un uomo, che allungò per quanto gli fu possibile, il bastone davanti alle nostre gambe, impedendoci di proseguire nel tentativo iniziato di attraversare i binari: "Fermi!"

Colpiti dalla voce come da una saetta, ci raddrizzammo di scatto e guardammo l'uomo; solo allora comprendemmo che avevamo scampato un grave pericolo: lo leggemmo nei suoi occhi che, sebbene fossero infossati tra rughe profonde e rossastre, mandarono un guizzo di terrore e di rimprovero. Non facemmo in tempo a riprenderci dallo spavento che, improvvisamente, un fischio fragoroso fendette l'aria e, sbuffante e minacciosa, apparve dalla curva la locomotiva che emetteva rabbiosamente dal fumaiolo un nugolo di fumo ondeggiante sulle carrozze, in cui s'intravedevano neri cilindri e spiritosi cappellini ornati di vistosi nastri di seta, che vibravano agli scossoni del treno.

Dopo il passaggio a livello, avvicinandosi alla palazzina della stazione, il treno rallentò la corsa, sibilando sui binari come una bestia ferita.

Appena le sbarre si alzarono, Raffaele, comprendendo che adesso potevamo passare, toccò il mio braccio per farmi voltare, poiché mi vedeva intento a guardare verso la stazione, dove i viaggiatori frettolosamente scendevano dal treno, confondendosi con altri che con altrettanta fretta vi salivano.

Come avrei voluto partire anch'io e tornare a Casale dopo un periodo di tempo, con la giacca chiusa da bottoni dorati ed il berretto con la visiera di celluloide, come i nipoti della maestra Cusimano, quando venivano a Pasqua dalla zia!

Tra questi fumiginosi pensieri mi gettai uno sguardo addosso, quasi compiangendomi nel vedere le scarpe di vacchetta non nuovissime, i pantaloni a mezza gamba, passati a me da Anselmo, che era di due anni più grande, la giacca che, già troppo piccola per la mia corporatura, lasciava abbondantemente scoperta la camicia di fustagno.  vedevo in migliori condizioni l'abbigliamento di Raffaele, stropicciato e con qualche toppa nei punti più consumati.

Questa osservazione, che dapprima mi aveva sconfortato, rasserenò il mio animo con la giustificazione della diversità dei luoghi di appartenenza: "Quelli vivono a Napoli, noi a Casale!" Così, tranquillizzatomi, affrettai il passo per raggiungere Raffaele che già si era incamminato. Quando gli fui vicino, sentii una gomitata nel fianco e bisbigliare:

"Oooh!... Guarda, Peppì, chi viene?!"

Guardai in avanti con aria indifferente, mentre vedevo avanzare di fronte a noi un ragazzetto press'a poco della nostra stessa età, ma con atteggiamento spavaldo che lo rendeva, a prima vista, molto antipatico. Il suo cipiglio non era affatto la testimonianza di un animo innocente, ma della prepotenza di un adulto.

L'impeccabile vestito bianco alla marinara, il berretto rotondo, fasciato di nastro azzurro che gli scendeva sull'orecchio, davano la certezza che fosse 'il signorino' del paese, supposizione, questa, avallata dalla compagnia di tre furfantelli male in arnese e dallo sguardo cattivo.

Tutt'e quattro si schierarono davanti a noi, dicendo con tono imperioso: "Addò iate; da ccà 'nse passa" (dove andate; di qua non si passa!)

La loro arroganza toccò profondamente il mio sistema nervoso; mi girai il berretto sul capo, come ero solito fare quando m'innervosivo, e mi avvicinai a loro, deciso a sfondare la barriera, mentre gridavo:

"Amma i' a Carinula. Che vulete?" (dobbiamo andare a Carinola. Che volete?)

"Da ccà 'nse passa!" rintuzzarono i quattro sandonatesi.

Raffaele, che in un primo momento era rimasto fermo al suo posto senza proferir parola, ora, conoscendo il mio carattere impulsivo ed essendo sicuro che non avrei ceduto di fronte alle sfacciate imposizioni di quelli, con fare accomodante disse:

"Meh, facetece passà!" (su, fateci passare!)

"Ah, nun capisci?..." fu la risposta del signorino, che non finì di pronunciare l'ultima sillaba, che fu colpito nello stinco da un mio potente calcio; il bellimbusto fece subito marcia indietro, tenendosi la gamba con la mano e piagnucolando, mentre i tre furfantelli lo seguirono, esclamando a gran voce, per farsi sentire a distanza:

"Hann' azzopatu don Felice..."

Come per incanto, sbucarono, chi di qua e chi di là, altri ragazzi che, senza sapere né come, nè perché fosse accaduto ciò, incominciarono a tirare sassi contro di noi con tanta rapidità e violenza, che comprendemmo di non poter fronteggiare quella sassaiola. Ci voltammo indietro di corsa, mentre tutta la schiera dei sandonatesi, aizzati da Felice, ci inseguiva, senza smettere di tirare sassi, raccolti furiosamente sui bordi della strada e cercando di schivare i sassi che, con minor frequenza, noi due malcapitati ributtavamo a loro, raccogliendoli da terra con destrezza, mentre correvamo a gambe levate.

La battaglia terminò all'imbocco della Via Appia, dove i sandonatesi, ritenendo che lì dovesse essere la linea di demarcazione del loro territorio, fecero dietro front impettiti come galletti al sorgere dell'alba e contenti di aver fatto indietreggiare vergognosamente il nemico invasore.

Al contrario, noi, per niente mortificati per l'inefficienza del nostro sistema difensivo, mentre percorrevamo l'Appia affannati e sudati, di tanto in tanto ci voltavamo indietro minacciando vendetta col caratteristico segno del braccio teso e formando un cerchietto col pollice e l'indice congiunti.

 

Ida Maina - 'Del mio tempo migliore' - Marotta Editore, Napoli, 1999

  

Ida Maina è nata a Carinola (CE) e vive a Gaeta.

Ha pubblicato: Liberi ioci, poesie, Gaeta, 1977; Vortici, romanzo, Napoli, 1984; La luna e la spina , poesie, Roma, 1989; Il veleno degli dei, romanzo, Roma,1993.

Ha partecipato a premi letterari, ottenendo riconoscimenti e premi, tra cui una medaglia d'oro offerta dalla Presidenza della Camera dei Deputati ed un bronzo di Assen Peikov al Premio Simpatia (Campidoglio, Roma, 1986).

 

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